Le date
Arvo Pärt
Silouans Song, per archi
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Concerto op.35 in re maggiore per violino e orchestra
Allegro moderato
Canzonetta. Andante
Finale. Allegro vivacissimo
Igor Stravinskij
Pulcinella Suite
Sinfonia (Ouverture, Allegro moderato)
Serenata (Larghetto)
Scherzino, Allegro e Andantino
Tarantella
Toccata (Allegro)
Gavotta con due variazioni (Allegro moderato, Allegretto, Allegro più tosto moderato)
Vivo
Minuetto (Molto moderato) e Finale (Allegro assai)
Note di Sala:
a cura di Andrea Cavuoto
Per la musica di Pärt si sono usati tutti gli aggettivi possibili: meditativa, sacra, fuori dal tempo, semplice, minimalista (!), antica. Eppure nessuno di essi sembra cogliere appieno la sua caratteristica fondamentale: è una musica per tutti. Per tutti quelli che ancora nutrono fiducia nella capacità di elevazione della musica.
Meditativa. Di certo induce ad uno stato d’animo volto alla contemplazione, ma vi è vita in essa, non è statica, anzi, è in perenne evoluzione.
Sacra. Lo è il soggetto, in particolare in questo brano, basato tutto sulla dottrina ortodossa che Pärt abbraccia e sposa in pieno. Il canto di Silouan è l’immaginario canto, sotteso alle note sillabanti degli archi, che Pärt trova negli scritti di Silouan (1866-1938), un monaco anziano del monastero di San Panteleimon, del quale l’Archimandrita Sofronio (dedicatario del brano) fu assistente. Non conosciamo esattamente il testo a cui si ispira Pärt, ma solo poche parole a didascalia del titolo: “la mia anima anela al Signore”.
Fuori dal tempo. Da un punto di vista estetico, sì e no. Il linguaggio di Pärt non trova eguali. E’ una sua creazione, ma solo dopo che la sua scrittura si è misurata con le tecniche contemporanee, dodecafoniche e post-weberniste. E’ quindi il risultato di un’evoluzione, non di certo una fuga dalla contemporaneità. E’, forse, una proposta.
Semplice. Se affianchiamo evoluzione e complessità, la musica di Pärt è semplice, quindi forse primitiva. Ma se leggiamo con attenzione e con strumenti analitici diversi dal solito, essa rivela un mondo fatto di piccoli scostamenti melodici, armonie misurate (e sempre riconducibili al sistema tonale), con un senso del dramma svolto in maniera diversa: la stasi “è” già dramma.
Minimalista. La ripetizione di formule con piccole costanti variazioni è di certo la logica di partenza del minimalismo, ma non vi è intento ipnotico in Pärt. Anzi, solo l’ascolto attento e vigile permette di gustare le linee melodiche orizzontali sovrapposte, solo l’elezione (tutta personale) di una linea guida consente di seguire il discorso generale, solo un animo che non ha bisogno di shock emozionali può rilevare la forza degli scarti dinamici.
Antica. Ma modernissima negli intenti. Basti pensare al crescendo che Pärt scrive nelle pause (quindi nel silenzio misurato) che l’orchestra deve osservare prima del fortissimo che precede di poco la conclusione di questo brevissimo ma eterno brano.
La vita di Čajkovskij, nella Russia zarista pre-rivoluzionaria, fu strettamente intrecciata a quella di Nadežda von Meck. Ella era la ricca vedova di un grande industriale, l’ingegnere baltico Karl, che aveva fatto fortuna grazie allo sviluppo delle ferrovie russe. Il rapporto con Čajkovskij durò dal 1876 al 1890, non fu mai diretto poiché i due mai si incontrarono, e si sostanziò di una corrispondenza fittissima: nel corso di quasi quattordici anni si scambiarono circa dodicimila lettere. La nascita di questo sodalizio fu dovuta all’intervento di colui che per anni fu uno dei pochi fidati amici di Čajkovskij, Josif Kotek, suo allievo nonché instancabile ammiratore e sostenitore. Kotek era un buon violinista sin da giovane poi, grazie anche agli studi berlinesi con Joachim, divenne un eccellente solista ed una vita girovaga fece affievolire il suo rapporto con il compositore. I rapporti tra i due furono spesso oggetto di pettegolezzo, data la giovane età del violinista, il suo bell’aspetto, e le sospettate o note inclinazioni omosessuali del compositore. La signora von Meck, rimasta senza marito in un’età ancora giovane, amava la musica e si rivolse a Rubinštein, allora direttore del Conservatorio di Pietroburgo, per trovare un giovane violinista di valore che potesse leggere con lei, buona pianista dilettante, il repertorio musicale per violino e pianoforte. La scelta cadde su Kotek (quando la signora avrà bisogno di un pianista per suonare a quattro mani, sarà la volta di Debussy!).
Čajkovskij si appresta a comporre il Concerto per violino forse oggi più famoso in un momento di particolare fragilità, ma sostanzialmente non negativo: un divorzio ha finalmente posto fine ad un matrimonio impossibile, quello tra il compositore ed una ragazza scelta quasi a caso per mettere a tacere i pettegolezzi sui suoi gusti sessuali e conferire una patina di innocente borghesità ad un uomo speciale. Liberato dall’orrore espresso in molte lettere alla von Meck, Čajkovskij è sul lago di Ginevra e, a mente libera, scrive in venticinque giorni il suo capolavoro. Un breve lasso di tempo che, però, comprende, varie rielaborazioni e addirittura vede la sostituzione in toto del secondo movimento con quello che oggi conosciamo, a formare un ampio brano che deve il suo successo a tre importanti fattori: un lirismo molto acceso che imprime nella memoria temi di straordinaria bellezza, una solida costruzione formale e, in particolare nell’ultimo movimento, un virtuosismo che in epoca romantica non può che sedurre gli animi di platee e solisti.
Non di tutti i solisti, però. Il giovane Kotek non se la sente di suonare il Concerto, è difficile e non sa che impatto potrebbe avere sulla sua nascente carriera. Emile Sauret rifiuta senza addurre troppe spiegazioni. L’attenzione di Čajkovskij si rivolge quindi in alto, a Leopold Auer, decano della scuola violinistica russa, allievo di Joachim e a sua volte mentore di Heifetz. Il giudizio di Auer è netto: il brano è ineseguibile. Čajkovskij, piuttosto scoraggiato, non cambia una nota della partitura ed infine trova ascolto presso Adolph Brodsky, grande solista russo, fondatore di uno dei primi quartetti professionali e vero personaggio cosmopolita. A lui viene dedicato il Concerto, del quale cura la prima esecuzione, a Vienna il 4 dicembre 1881, sotto la direzione di Hans Richter. Da quel momento diventa “il” concerto romantico per violino di eccellenza, in qualche modo mettendo in ombra il pur eccezionale Concerto di Brahms, composto in quegli stessi anni. La ricezione da parte della critica non fu omogenea, e la voce di Hanslick, visceralmente brahmsiano, non esitò a tuonare contro il Concerto di Čajkovskij, invocando “puzza di alcool” e “qualche festa russa selvaggia”. Čajkovskij terrà con sé per anni questa critica, pubblicata sulla Neue Freie Presse, una sorta di memento del dolore. La vera rivincità, però, sarà constatare che il suo Concerto diventerà un cavallo di battaglia di Auer, dopo un rifiuto così netto ed un giudizio forse davvero affrettato.
Accostare il Novecento russo di Stravinskij al Settecento italianissimo di Pergolesi, sia da un punto di vista cronologico che estetico, è un’operazione coraggiosa, ma a volte certe coppie possono andare inaspettatamente d’accordo. E’ il caso di Pulcinella, un balletto composto dal russo Stravinskij su musiche di Pergolesi e di altri autori coevi all’italiano, oggi proposto nella Suite orchestrale che Stravinskij approntò all’indomani della fortunata esecuzione del balletto (che comprendeva anche tre voci soliste).
La nascita di quest’opera così popolare è ben documentata: Djagilev, l’incontenibile impresario e creatore dei Ballets Russes, dopo la comprovata collaborazione con il giovane musicista russo, e dopo aver rilevato il favore con cui erano state accolte alcune orchestrazioni di Respighi da musiche di Domenico Scarlatti e di Rossini, durante una passeggiata in Place de la Concorde, nel 1919, decise di affidare a Stravinskij la creazione di un balletto basato su materiali del ‘700, segnatamente sull’opera di Giovan Battista Pergolesi. E’ difficile immaginare come dovesse suonare il nome di Pergolesi nella testa di un giovane russo appena immigrato in Europa, e sappiamo che Stravinskij conosceva sostanzialmente solo lo Stabat Mater e la Serva Padrona del maestro di Jesi, e comunque la musicologia dell’epoca doveva ancora scoprire quasi tutto il resto della sua produzione. Di certo a Stravinskij l’operazione suonò azzardata, ma stuzzicante, ma gli esiti furono dei migliori, visto che dal 1922 la Suite non è mai uscita dal canone delle musiche più eseguite dalle compagini sinfoniche.
Milan Kundera, al pari di Stravinskij un émigré, mette in relazione il cambio estetico della sua musica con la sua nuova condizione di immigrato nel cuore della vecchia Europa, comunque una scelta volontaria ma accelerata dalla guerra e dalla rivoluzione bolscevica, nel senso di un bisogno inconscio ma non di meno irreversibile e necessario di legittimare la propria arte attraverso l’appropriazione di modelli, estetiche, forme e formule, rilette secondo la propria personalità.
La scelta di Pulcinella come protagonista del balletto fu quasi incidentale e la trama narrata è molto semplice, basata su un episodio della Commedia dell’Arte napoletana incentrato su uno scambio di persone che permette alla famosa maschera di sposare l’amata Pimpinella, in barba ai quattro muscolosi pretendenti.
Il risultato fu quello di un Settecento rivisto e corretto, ma pur sempre fresco e lineare nella proposta. Ed è per questa ragione che la sostituzione delle voci soliste con un quintetto d’archi posto nel cuore dell’orchestra non ha nuociuto alla validità dell’opera. Il suono che esce dall’orchestra sa di Settecento, e ricorda inevitabilmente quello del concerto grosso (anche se Pergolesi non ne ha scritti). Il passo del discorso musicale perde in equilibrio metrico ma non in regolarità in quanto fluisce pur accogliendo in sé contrazioni improvvise o sognanti rarefazioni.
Ritroviamo danze antiche, momenti di lirismo dell’opera italiana del Settecento, arie e concertati, danze popolari ed un certo folklore italiano riletto sotto una lente che distorce i dettagli ma non tradisce il disegno generale.
Si tratta di un’imitazione reverenziale, ovvero ciò che viene mutuato è lo stile, la forma stessa, la condotta piena di colpi di scena tipica dell’opera buffa napoletana, introducendo nel tessuto compositivo note estranee all’armonia, defunzionalizzando alcune armonie, aggiungendo forme ornamentali moderne alla melodia, utilizzando un’orchestrazione particolarmente colorita e mutando la lunghezza delle frasi originali. Ciò che però avvince nella partitura, e che ne ha segnato la fama, è la sensazione che l’idioma di partenza non sia mai stato tradito, bensì vissuto e riproposto. Ciò che Stravinskij e Djagilev ci suggeriscono non è un viaggio nel Settecento, ma è il Settecento stesso a muoversi verso di noi, quindi non un’attività museale ma la possibilità rinnovata di vivere la freschezza di un secolo lontano ma ancora in grado di stimolare la novità.
Biglietteria
La sera del Giovedì di questo concerto è inserita nella speciale rassegna: LA MUSICA È GIOVANE.
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Abbonamenti e bilgietti in vendita presso:
Biglietteria Ticket One – Teatro Dal Verme
Via San Giovanni sul Muro, 2 – Milano
Tel. 02 87905
Orari d’apertura
Dal martedì al venerdì dalle ore 10 alle ore 18
Sabato e domenica dalle ore 10 alle ore 13
Vendita Online: www.ticketone.it
Il Cast
Direttore: Rani Calderon
Violino: Yossif Ivanov
Orchestra: I Pomeriggi Musicali