Concerto - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 24 marzo 2011
Ore: 21:00
sabato 26 marzo 2011
Ore: 17:00

Stravinskj – Dances  concertantes
Prokofiev
– Concerto  n. 5 per pianoforte e orchestra op. 55
Beethoven
– Sinfonia n. 7 op 92

Programma di Sala:
a cura di Sergio Casesi

Igor Stravinskji: Danze Concertanti
Marcia Introduzione – Passo d’azione – Tema variato – Passo a due – Marcia Conclusione

Sergei Prokofiev: Concerto per pianoforte e orchestra n.5 in sol maggiore op. 55
Allegro con brio – Moderato ben accentuato – Toccata: Allegro con fuoco – Larghetto – Vivo

L.v Beethoven Settima Sinfonia op. 92
Poco sostenuto. Vivace – Allegretto – Presto – Allegro con Brio

Stravinskji
Le Danze Concertanti furono commissionate dalla Werner Janssen Orchestra di Los Angeles e la prima rappresentazione si ebbe al City Center di New York ad opera dei Ballets Russes de Montecarlo, il 10 settembre 1944.

Spesso per il Grande Igor si parla di musica al quadrato, cioè di musica scritta da altra musica, in una ideale potenza di essa, che esplode, più che sviluppare, gli elementi caratteristici della prima, portando al massimo grado di tensione gli elementi strutturali e idiomatici, siano essi melodici, armonici o ritmici, raggiungendo un nuovo clima espressivo mai ascoltato prima.

Come per altre opere di Stravinskji, quali ad esempio Pulcinella che è il caso più famoso, le Danze Concertanti rispondono a questi principi, dimostrando una volta ancora la straordinaria intelligenza e l’ironia musicale del compositore, nonché l’atteggiamento onnivoro del genio russo.

Stabilitosi ormai definitivamente negli Stati Uniti, in questa partitura Stravinkji sembra voler delineare tutti i punti di intersezione possibili fra la musica “colta” e la musica pop americana di quei primi anni quaranta. Con una capacità di scrittura inverosimile, tutti i più tipici e suadenti ritmi e atteggiamenti della musica radiofonica dell’epoca vengono risolti in una dimensione alta prendendo un nuovo significato, senza perdere però la connotazione di partenza.

Queste Danze, in fondo, sono composte di nulla. Siamo incredibilmente vicini al Mozart di alcuni Concerti per pianoforte, composti all’origine da un accordo o una scala, estratti cioè da un materiale quasi privo di un connotato simbolico.

Nelle Danze si passa da un goffo passo militare alla dolcissima canzoncina da innamorati, dal tema sbruffone e vanamente orgoglioso al ritmo da Hula Hoop senza sentire alcuna cesura. Stravinskji sembra descrivere così quel firmamento di plastica di quel nuovo continente a cui chiedeva cittadinanza.

La semplicità che compone l’opera e l’inarrivabile e delicata saggezza sono il più bel ritratto musicale degli Stati Uniti di quegli anni, di una nazione adolescente, in procinto di ultimare e definire i propri miti, per candidarsi al nuovo status di potenza internazionale. C’è poca Storia in questa musica che comunque è molto potente.

Nel 1972 Balanchine per il Festival Stravinskji volle dare una nuova versione del balletto.

A un anno dalla scomparsa del compositore, in una grande manifestazione organizzata dal New York City Ballet al New York State Theatre, dal 18 al 25 giugno si misero in scena trentuno balletti stravinskiani, divisi fra i più interessanti coreografi del tempo.

Le Danze Concertanti, anche se non hanno lo spessore profetico de L’Uccello di fuoco, la forza sismica e strutturale della Sagra della Primavera, o anche il fascino di opere più tarde del periodo neoclassico, restano un gioiello raro tanto da reggere l’incredibile catalogo. L’acume, la bravura e il sarcasmo con cui Stravinskji dipinse l’atmosfera di quegli anni fa di questa breve composizione un capolavoro da cui non si può prescindere.

Un capolavoro misurato forse, piccolo se vogliamo, ma inestimabile.

Prokofiev
Il Quinto Concerto per pianoforte e orchestra fu scritto nel 1932 e la prima registrazione si ebbe con il compositore alla tastiera e i Berliner Philahrmoniker diretti da Wilhelm Furtwängler.

Composizione complessa eppure estremamente affascinante, testimonia il momento di passaggio fra il secondo e il terzo periodo espressivo di Prokofiev. Anche se disinvolta, questa “musica per pianoforte e orchestra” come avrebbe voluto intitolarla il compositore, nasconde già qualcosa di non dicibile, di non più ammissibile alla coscienza. Sotto le altissime fiamme di questo incendio per pianoforte e orchestra si cela il sentimento di una angoscia nuova, tutta postindustriale. Un’angoscia meccanica, ma che ha già angoli di spigoloso sarcasmo, vuoti d’aria d’ironia disperata, scossa da folate di vento ghiacciato e subito rovente.

Il primo tempo dell’op. 55 si apre con un Allegro con Brio dove il solista chiama tutti i diversi timbri orchestrali a sottolineare e sospirare per i suoi salti, per le proprie vampate di folle dolcezza e stralunata liricità. Dal tuba all’ottavino passando fra ribattuti crudeli dei violini e oleose e notturne frasi del clarinetto. Tutti sono piegati alla volontà del pianoforte, tiranno del tempo, dittatore incontrastato dell’espressione ora feroce ora sublime.

Il Secondo Movimento, Moderato ben Accentuato, si accende con una partenza che solo l’umorismo circense e lunare di Prokofiev poteva inventare. Ottoni e fiati attaccano con note corte una specie di marcia clownesca su cui il pianoforte volerà con scale così veloci da apparire lampeggiate come code di comete. Questo sarà il clima che il compositore vorrà variare nel corso del movimento, rendendolo ancora più estremo nei territori di una follia dissociativa, elettrica e industriale, di una follia spaziale simbolo di una leggenda dell’uomo moderno che può pretendere per sé cielo e terra, e della malinconica della coscienza di essa, e del non senso delle cose e del suo sgomento, raffigurato qui dagli improvvisi buchi timbrici e ritmici, ansiogeni e smarrenti.

Se la Toccata riprende materiali del primo tempo, ma “più presto che la prima volta” come indicato in partitura, è per fare da cuscinetto tra il secondo e il quarto movimento, il meraviglioso Larghetto, ispirato e commovente. La prima sezione tematica di questo quarto movimento è forse il più punto più alto della composizione. Gli archi e il flauto danno vita a una dimensione sospesa, ultraterrena nel senso stretto fuori dall’orbita dei nostri mali. Un sogno ad occhi aperti in cui perdere il senso della discontinuità con il resto dell’essere. Sembra che da qui si possa ritornare attraverso la fantasia in quel luogo dove la luce e il buio sono ancora inseparati, dove il canto lirico non è diverso dallo sguardo oggettivo, un luogo dove poter essere dentro e fuori, al di là del tempo eppure nel suo fluire. Quando poi la partitura tornerà a farsi più spessa, ricorderemo ciò che siamo stati, ciò che di noi la vita è stata capace di fare: ferro, pietra, fuoco e ghiaccio, esploso verso uno spazio buio, ai confini dell’universo. Movimento fra i più profondi di tutta la letteratura pianistica, scolpito nella storia della musica come un punto d’arrivo inestimabile per complessità e audacia espressiva, riporta, con i suoni più sublimi del solista frammisto ai fiati e ai violini, il canto più profondo della vita fin dal suo nascere, dal suo svilupparsi senza un motivo altro da se stessa, disegnando il confine di un universo delle cose al di là di ciò che l’uomo può comprendere, al di là di dove mai l’occhio potrà posare le sue ali. Nelle terre della profonda intuizione nutritasi dallo spirito della vita c’è la pacificazione primordiale, così si conclude questo affresco dell’universo umano.

Il quinto movimento, Vivo, riporta invece tutto sulla terra, nella terra, su quel pianeta corrotto che Prokofiev ha attraversato, e amato, nel suo viaggio. Tormento, assillo, tarlo, ossessione è il testo che il solista sembra urlare nel pianissimo iniziale. Ma qui, come spesso nello straniamento di questo grande compositore, la maschera che più urla il dolore è quella graffiata dal sorriso, da un sorriso malato forse, ebbro, sconvolto, ma forse proprio per questo libero di dichiarare una possibile, frammentaria, occasionale verità.

Beethoven
“Un uomo con molte teste, molti cuori e molte anime”, Beethoven secondo la celebre definizione di Haydn. Una vita la cui umanità è ben descritta in una Sinfonia come la Settima con altrettanti cuori e altrettante anime.

Quale sia l’elemento principale della composizione non si può dire. Una costellazione di eventi eccelsi vengono legati insieme dalla fitta trama ritmica che fino alla fine non smetterà di pulsare.

Con una lettura analitica possiamo certo riconoscere l’alternanza classica dei temi o delle sezioni, la struttura generale corrispondente più o meno, come in tutto Beethoven, all’indizio formale stabilito e anche ampiamente superato. Ma qui c’è, in evidenza, un elemento ancora più sottile che concorre a fare della Settima Sinfonia il capolavoro che è.

Come tutti i grandi compositori, Beethoven ha saputo dare un suono specifico ad ogni composizione. L’Adagio dell’Imperatore è riconoscibile anche solo da un piccolo frammento, e così il Primo Tempo della Quinta o il Coro della Nona.

I movimenti della Settima Sinfonia sono accomunati da uno stesso suono, da uno stesso inimitabile timbro. Per la scelta della tonalità, per l’orchestrazione e per il desiderio di aderenza timbrica al materiale melodico e armonico, abbiamo un suono azzurro, puro, rarefatto, a volte freddo, luminoso tendente al bianco, ricco di abbagli e di vuoti silenziosi.

Il ritmo della Sinfonia poi solleva questo vento luminoso dei quattro movimenti verso l’alto, verso un vortice sempre più grande e potente che nell’ultimo tempo saprà rapire oltre che la fantasia il corpo dell’ascoltatore, che non riuscirà a restare fermo.

L’orchestra annerita e poi all’ultimo come rifulsa dal fuoco della Quinta non appare mai.

Il sole rosso della Pastorale resta sempre nascosto.

Nella Settima non si ha la possibilità di stringere nulla nelle mani, tutto ci scivola via in un continuo fuggire, “come acqua fra le dita”. Ed è proprio questa caratteristica a rendere la Settima così fortemente capace di riportare in musica i simboli più profondi della nostra umanità. Si indaga la natura del divenire, e lo si fa con l’uso della metafora musicale: i simboli, introiettati nel linguaggio musicale attraverso la stratificazione linguistica barocca e classica, vengono illuminati e legati insieme per dire il frutto di una logica capace di significati primordiali. Il timbro sarà uno degli elementi fondamentali, come il ritmo, l’orchestrazione e il materiale puramente melodico, di questo dire. Velare ogni cosa di infinito è per Beethoven qui un modo per spostare lo sguardo direttamente su un piano metafisico. Ogni cosa è anche al di là. Ogni elemento è anche altro da sé. Siamo in un luogo dell’anima dove non c’è più distinzione fra verità e menzogna, dove il caso può pretendere per sé ogni regola, ogni parola, ogni sospiro. Il ritmo corporeo qui viene visto come il legame tra fisicità e ciò che è Oltre, in una unità ideale fra corpo e natura.

Colorare ogni nota di luce e di azzurro fa dell’op. 92 un discorso sopra la luce abbagliante dell’eterno, dove l’ombra umana è descritta dal suo vibrato tremolio, trafitto dalle curve del tempo.

Biglietteria

La sera del Giovedì di questo concerto è inserita nella speciale rassegna: LA MUSICA È GIOVANE.
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Abbonamenti e bilgietti in vendita presso:
Biglietteria Ticket One – Teatro Dal Verme
Via San Giovanni sul Muro, 2 – Milano
Tel. 02 87905

Orari d’apertura
Dal martedì al venerdì dalle ore 10 alle ore 18
Sabato e domenica dalle ore 10 alle ore 13
Vendita Online: www.ticketone.it

Il Cast

Direttore: Michel Tabachnik
Pianoforte: Giuseppe Albanese
Orchestra: I Pomeriggi Musicali