Le date
Note di Sala:
a cura di Sergio Casesi
ALDO CLEMENTI
Halleluja, varia zioni sul corale
Una voce significativa del secondo novecento italiano è quella di Aldo Clementi. Partito dalle esperienze strutturaliste di Darmstadt dei primi anni cinquanta, scoprirà la sua voce, originale e atipica, solo qualche anno più tardi, intessendo un rapporto particolare con il passato e specificatamente con l’opera bachiana. Clementi, elaborando personalmente esperienze diverse fra loro, lo studio del contrappunto di Bach, l’ammirazione per i capolavori del grande Maderna e le suggestioni informali che in campo pittorico in quegli anni si manifestavano, tenderà sempre più a stagliarsi dalla ciurma seriale più severa e obbediente, fino a trovare la sonorità di una propria identità ben riconoscibile. Nel corso degli anni settanta, seppur senza fratture apparenti, il comporre di Clementi muta. La polifonia nuova delle opere seriali si colora di una nuova immediatezza, le asprezze vengono contenute, il tessuto melodico si fa più cantabile, Clementi sembra voler tornare ad una comunicatività più semplice, senza però rinnegare il linguaggio della modernità. In un desiderio di inclusione totale della memoria musicale e di una propria interiorizzazione, Clementi saprà creare un’espressione meno elitaria e più estroversa.
Attraverso una scrittura che sarà sempre contrappuntistica, Clementi giungerà alla realizzazione di brani di puro colore in movimento, dove le voci interne, amalgamate le une alle altre, confluiranno in una più composita polifonia di timbri.
L’Halleluja, variazioni sul corale, è un brano che contiene i principi fondamentali della musica di Clementi. L’orchestra è divisa in piccoli gruppi, che a loro volta sono composti polifonicamente da più strumenti di diverse famiglie. Si otterrà, con la polifonia interna ad ogni gruppo strumentale e la polifonia generata dalla sovrapposizione dei gruppi, un caleidoscopio timbrico di particolare raffinatezza. L’Halleluja di Clementi è un continuum sonoro cangiante a cui non resta che abbandonarci, un discorso timbrico in cui annegare, per cercare un riferimento da inseguire con il solo scopodi poterlo perdere.
NINO ROTA
Concerto n. 2 per violoncello e orchestra
Altra, diversa per indole e ispirazione, nonché per formazione e ambiente, è l’opera di Nino Rota. Rota non sente la frattura storica all’interno del modo di fare musica. Sente la tradizione come cosa ancora attiva e feconda, a cui non è necessario rinunciare. In primis c’è il mondo del melodramma da cui estrarre infiniti modelli per le proprie poetiche volate melodiche, e in seconda battuta il mondo più “basso” dell’operetta, della musica da circo e della musica popolare italiana. La musica di Rota sarà quindi ideale per il mondo del cinema, e soprattutto, del grande cinema di Federico Fellini, a cui darà le sue più grandi partiture: La Strada, La Dolce vita, 8 e ½, Amarcord. La fortissima capacità evocativa, poetica, surreale, e allo stesso tempo psicologica delle melodie di Rota si sposa perfettamente con il genio di Fellini, fino non solo a determinarne una caratteristica riconoscibile e indelebile, ma anche diventando parte integrante della poetica del regista. La musica di Rota vive delle stesse massime felliniane: non è più vera la realtà della fantasia, se crediamo che solo la concretezza del sensibile sia autentica perderemo il meglio dell’esistenza, la poesia della vita. Nella produzione “seria” di Rota, cioè nella sua vasta produzione cameristica e teatrale, si hanno gli echi della sua grande musica per il cinema, senza però che si tocchi mai il sublime poetico di alcune partiture, come quella per il Gattopardo scritto per Visconti o il Romeo e Giulietta per Zeffirelli, o per i grandi film di Petri, Monicelli o Coppola.
La musica “pura” di Rota sembra più accademica, a tratti più triste, anche se sempre abile a rivelare il grandissimo talento e l’immensa fantasia del compositore. Sembra che a Rota l’immagine serva come da trampolino, per riportare sulla carta le più belle melodie del suo cielo poetico, melodie così semplici da creare stupore e meraviglia ad ogni ascolto. Senza le immagini la musica di Rota tende a farsi meno gioiosa, meno disinvolta, anche se non per questo priva di valore.
Nella musica strumentale, ad esempio, troviamo un debito forte nei confronti di grandi compositori come Shostakovich o Stravinskji, e in generale una tendenza coloristica dichiaratamente francese.
Il concerto n.2 per violoncello e orchestra, dedicato e Rostropovich, è un’opera dolce, leggermente intensa, lirica e sempre ricca di grazia. Al violoncello solista sono affidate linee di canto che descrivono una malinconia seria, tutta moderna, forse metropolitana. Ma l’andamento, a tratti nostalgico e notturno, rivela anche una grande forza filata nelle maglie dell’intera composizione, la forza di un sarcasmo saggio e amaro, appena ferito da una speranza non confessata.
FRANZ SCHUBERT
Sinfonia n. 2 D 125
Il catalogo di Schubert ha sempre dovuto fare i conti con quello del più celebre dei suoi contemporanei. Il difficile rapporto con Beethoven è finito per scivolare nell’aneddotica, pur conservando la sua verità di fondo. L’imponenza delle sinfonie di Beethoven costrinse inevitabilmente i compositori e il pubblico dell’epoca a fare un confronto e quando poi, nel corso dell’ottocento, il maestro di Bonn fu elevato a vero e proprio mito tedesco, la maggior parte dei compositori fu destinata a soccombere. Non si vince contro il mito, che è per definizione insuperabile sul suo terreno. Ma Schubert, come i più grandi dopo di lui, sembra da subito saperlo. Nelle partiture del Viennese emerge la costante capacità di sfuggire al mito, e alla inevitabile ripetizione di esso, trovando altre strade, proprie, e non per questo più facili, anzi. La decisione di dire altro, e in altro modo rispetto a Beethoven, è dettata dalla consapevolezza che i confnini di un tipo di discorso musicale erano stati raggiunti. E questo, se fu determinante per le scelte di Schubert, fu allo stesso tempo disorientante per la critica, che se mai rifiutò le sue sinfonie, non poté subito capirle davvero. La sinfonia di Schubert non si può leggere con mezzi beethoveniani, non si possono afferrare le particolarità, le differenze, i dettagli e la profondità trasparente di un autore che ha saputo infondere alle forme della tradizione non solo l’inquietudine romantica, ma una visione dell’uomo e della vita altre rispetto alla concezione politica, nel senso più alto e inclusivo del termine, di Beethoven. Non si tratta di stabilire chi è più grande e dove. Oggi possiamo permetterci di osservare la nostra memoria senza dover vedere a tutti i costi una tendenza progressiva della storia. Come in filosofia o nella storia dell’arte, ogni pensatore o artista, e in definitiva ogni uomo magnanimo, scopre uno dei limiti dell’esistere. Percorrendo a fondo il proprio sguardo non si può che incontrare il non senso del proprio universo individuale. Così, accanto al genio sterminato di Beethoven, abbiamo, nella stessa Vienna, un artista che scopre in sé un modo diverso di comporre e di sentire la vita. Il titanismo, la concezione eroica di un destino capace di torcere il tempo degli uomini condannati a una battaglia prometeica restano sullo sfondo, sempre più lontani, sfocati fino ad annebbiarsi e sparire quando l’artista fonderà i propri occhi a quelli del Wanderer. Schubert scrive sul pentagramma il viaggio interiore di un uomo alla ricerca di sé, chiuso non in un individualismo moderno ma profondamente romantico, fatto di misteri, di lampi appena percepiti, di visioni nebulose, di apparizioni che le mani non riescono a stringere. E’ il cammino del Wanderer che viaggia in un mondo simbolico, apparente, che solo esiste come riflesso della propria anima. La verità è ambigua, il confine fra immaginazione e realtà è troppo labile per essere indagato, troppo pericoloso, e oltre il limite vi è solo l’irreparabile della tragedia. Nella Seconda Sinfonia, scritta fra il 1814 e il 1815, senza nascondere le ascendenze haydniane della forma, il compositore intesse un discorso da subito diverso rispetto al sinfonismo della sua epoca. Da un ricchissimo e generoso Largo germina un Allegro Vivace di gioiosa vitalità giovanile, leggero e dolce nell’esposizione, ma capace di tremare di un orrore mai dichiarato, ma sempre sotteso, nello sviluppo del primo tempo. Sia il Largo che l’Allegro sono costruiti sulle figurazioni più veloci dei violini, vera impalcatura di tutto il movimento. Le frasi che dai violini si propagano frammentandosi e ricompattandosi a tutta l’orchestra d’archi, sosterranno ritmicamente ogni visione, ogni sogno, e l’intero canto del primo movimento. E’ il battito di un cuore spaventato, forse innamorato, forse scosso da una introspezione davvero difficile da sostenere. Il tema dell’Allegro viene infatti sempre variato e scomposto fino ad aderire a più sentimenti, sempre più sottili, contrastanti, descrivendodettagli emotivi che dichiarano anche il modo in cui l’intera musica di Schubert vuole essere ascoltata. Occorre un abbandono controllato, introspettivo, una meditazione in cui far emergere le nostre personali esperienze, affinché la musica si colmi di esse e in noi risuoni compiutamente.
Il secondo movimento è un Andante, tema e variazioni. Se il tema suonato dagli archi sembra sospeso fra Haydn e Mozart, le variazioni scoprono un sistema espressivo veramente romantico. Sempre con grazia e ordine formale, Schubert riesce a far passare ombre difficilmente ascrivibili al periodo classico. Non vi sono fratture o sorprese incandescenti ma, come sottovoce, come sotto il livello delle acque più calme, si aggira lo spettro di una paura antica e stranamente insepolta.
Il Minuetto, Allegro Vivace e Trio, è costituito da materiali popolari, da melodie e ritmi che rimandano ad una festa tutta terrena. L’atteggiamento è semplice, i modi sono quelli della grazia e della bontà dei contadini, pur non essendo mai un quadro astrattamente bucolico. Il Wanderer qui sembra imbattersi nell’umile umanità del popolo, della fatica dopo il lavoro e della gioia semplice e profonda del riposo, che però è incapace di celare l’amarezza in cui ogni giorno si piega, abbandonandosi all’incertezza delle tenebre.
Il Presto finale, invece, è una portentosa e sicura cavalcata verso verdi paesaggi incontaminati. Dalle prime note si sente il vento di una galoppata nel cuore della natura, verso la sua essenza. Anche qui ritroviamo quel modo di Schubert di trattare i temi, con passaggi improvvisi dal maggiore al minore, come per scovare di ogni elemento tematico i lati positivi e quelli negativi, come se la variazione fosse del punto d’osservazione prima che del materiale musicale stesso.
Il Wanderer, in questa sinfonia come in tutta l’opera di Schubert, riscopre ad ogni nota il senso del suo vagare. Non c’è una meta a cui siamo destinati. Il caso determina più di ciò che vorremmo mai ammettere. Lo scopo della vita è la vita, come scriverà Montale un secolo dopo. Lo scopo del viaggio di Schubert è il viaggio stesso, e il vagare senza senso ne è allo stesso tempo forma e contenuto.
Biglietteria
La sera del Giovedì di questo concerto è inserita nella speciale rassegna: LA MUSICA È GIOVANE.
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Abbonamenti e bilgietti in vendita presso:
Biglietteria Ticket One – Teatro Dal Verme
Via San Giovanni sul Muro, 2 – Milano
Tel. 02 87905
Orari d’apertura
Dal martedì al venerdì dalle ore 10 alle ore 18
Sabato e domenica dalle ore 10 alle ore 13
Vendita Online: www.ticketone.it
Il Cast
Direttore: Andrea Battistoni
Violoncello: Fernando Caida Greco
Orchestra: I Pomeriggi Musicali