Concerto Civile "Giorgio Ambrosoli" - Quarta edizione - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 20 settembre 2012
Ore: 19:30

II Giornata della Virtu’ Civile

“Il Concerto Civile Giorgio Ambrosoli arriva quest’anno alla IV Edizione e comincia a diventare un appuntamento tradizionale per i cittadini milanesi. Il successo della manifestazione sembra mettere in luce da una parte il desiderio tuttora vivo di ritrovarsi attorno a una figura simbolica della storia migliore di Milano, dall’altra il risorgimento della coscienza civile e la rinascita di valori fondamentali per la convivenza sociale pienamente espressi nella Costituzione italiana.”

Biglietteria

Serata a ingresso gratuito. I biglietti omaggio per partecipare alla serata dovranno essere preventivamente ritirati presso la biglietteria del Teatro Dal Verme. I biglietti saranno disponibili fino ad esaurimento dei posti e comunque non oltre le ore 18,00 del 19 settembre 2012.

Il Cast

Enrico Dindo, direttore e violoncello

Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Il Concerto di quest’anno è dedicato alla memoria del Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di Polizia Domenico Russo, trucidati in un attentato mafioso a Palermo il 3 settembre del 1982. I fili che legano il tragico e odioso agguato di Palermo con Milano sono molteplici. L’attività di Dalla Chiesa, prima come generale dell’Arma dei Carabinieri e poi come Prefetto, ha toccato più volte anche la nostra città, in particolare durante la torbida stagione del terrorismo e della minacciata eversione delle istituzioni democratiche. Emanuela Setti Carraro, impegnata nel volontariato e nella Croce Rossa secondo una radicata tradizione di molte famiglie milanesi, è morta al fianco di Dalla Chiesa a soli 31 anni. Perfettamente consapevole di correre dei gravi rischi, non ha esitato a seguire i destini del marito e a condividere i suoi valori civili e politici. La stessa sorte è toccata all’agente della scorta Domenico Russo, morto anch’egli a poco più di trent’anni nel tentativo di proteggere l’uomo definito in un cartello affisso sul luogo della strage “la speranza dei palermitani onesti”.

Infine qualche accenno sulla parte artistica. Le musiche scelte da Enrico Dindo, che si esibisce nella doppia veste di solista al violoncello e di direttore d’orchestra, disegnano un breve profilo della musica slava tra Ottocento e Novecento. Slava e non russa, a causa della presenza di un autore di Praga come Dvořák, che pur sentendosi parte di una tradizione più europea sentiva la necessità e il dovere di risvegliare nella musica ceca le fonti primigenie dell’antica cultura slava. Malgrado non amasse il violoncello come solista, Dvořák ha scritto alcune tra le pagine più belle per questo strumento, grazie alla profonda amicizia che lo legava al violoncellista Hanuš Wihan, per il quale scrisse nel 1891 il Rondò in sol minore.

Alexander Glazunov è stato il musicista russo più influente a cavallo del Novecento, dopo la scomparsa di Cajkovskij. Per moltissimi anni fu il Direttore del Conservatorio di San Pietroburgo, prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre, aiutando e proteggendo come poteva i grandi talenti passati per quelle aule. Della sua sterminata produzione oggi resta abbastanza poco, ma il Canto del menestrello, scritto nel 1900, è un lavoro sempre rimasto nel repertorio.

Cajkovskij, come Dvořák, ebbe un grande amico violoncellista, Wilhelm Fitzenhagen, per il quale scrisse nel 1877 le Variazioni su un tema Rococò. Sono sette Variazioni più una Coda su un motivo ispirato alle leziose eleganze della musica del Settecento. Da questa esile premessa, nasce una delle partiture più vivaci, colorate e impervie dal punto di vista tecnico della letteratura violoncellistica, ma sempre circondata dall’aura di melanconia tipica della musica di Cajkovskij.

Al mondo classico guardava anche la Prima Sinfonia di Prokof’ev, come riporta anche il sottotitolo del lavoro. Scritta tra il 1916 e il 1917, a ridosso della Rivoluzione d’Ottobre, la Prima Sinfonia lasciò sorpresi gli ascoltatori, che si aspettavano dal giovane Prokof’ev qualcosa di simile allo stile aggressivo e avanguardista della sua musica per pianoforte. Invece l’autore spiazza tutti con un lavoro pieno di energia, ma incanalata entro i confini di un linguaggio molto accessibile e comunicativo. I quattro movimenti mostrano la facilità di scrittura e la fertile immaginazione melodica di Prokof’ev, che ha intuito l’imminente svolta delle tendenze estetiche più moderne e l’avvicinarsi di quel “ritorno all’ordine” dominante nella musica degli anni Venti.

Associazione Civile Giorgio Ambrosoli

Tavola rotonda h. 19,30

con Umberto Ambrosoli, Ferruccio de Bortoli, Nando Dalla Chiesa, Paolo Setti Carraro e Antonio Russo
Modera Marino Sinibaldi

Concerto ore 21,00

Antonín Dvořák (1841-1904)

Rondò op.94 in sol minore per violoncello e orchestra

Allegretto grazioso

Aleksandr Glazunov (1865-1936)

Canto del menestrello op.71 in fa diesis minore per violoncello e orchestra

Lento

Pëtr Il’ic Caikovskij (1840-1893)

Variazioni su un tema rococò op.33 in la maggiore per violoncello e orchestra

Introduzione: Moderato quasi Andante

Tema: Moderato semplice

I Variazione: Tempo del Tema

II Variazione: Tempo del Tema

III Variazione: Andante sostenuto

IV Variazione: Andante grazioso

V Variazione: Allegro moderato

VI Variazione: Andante

VII Variazione e Coda: Allegro vivo

Sergej Prokof’ev (1891-1953)

Sinfonia n. 1 op.25 in re maggiore “Classica”

Allegro

Larghetto

Gavotta: Non troppo Allegro

Molto vivace

a cura di Andrea Dicht

Il binomio Dvořák-violoncello è ben noto, grazie allo splendido Concerto op.104 che ha segnato l’apogeo della produzione romantica per lo strumento. Il Concerto in si minore, però, è il punto di arrivo della produzione di Dvořák per violoncello, in particolare dal punto di vista sinfonico, dato che egli stesso aveva sempre nutrito molti dubbi su un possibile equilibrio fonico tra un violoncello solista e l’orchestra. Come spesso accade nella storia della musica, accanto ad una grande mente creatrice vi è un tecnico, e anche nel nostro caso accanto a Dvořák troviamo la figura di un singolare ma geniale violoncellista, Hanuš Wihan (1855-1920), il più famoso e valido virtuoso di questo strumento in Cecoslovacchia fino a nostri giorni. Fondatore del Quartetto d’archi Ceco, formazione cameristica di eccellenza per 40 anni senza soste, Wihan fu un virtuoso noto ben oltre i confini della sua amata patria. Diplomato al Conservatorio di San Pietroburgo con K. Davydov, fondatore dell’insuperata scuola violoncellistica russa, a soli 18 anni diventa professore presso il Mozarteum di Salisburgo. Frequenta Franz Liszt, Wagner lo chiama a guidare la fila dei violoncelli a Bayreuth, Richard Strauss gli dedica la sua Sonata op.6 ed il loro legame diventa così stretto che la moglie del violoncellista si innamora di Strauss. Wihan, troppo geloso per accettare l’eventualità di questo amore anche se non corrisposto da Strauss, divorzia per tornare in Cecoslovacchia e abbandonarsi pienamente alla sua attività concertistica e didattica. Quì entra in scena Dvořák: i due si intendono subito  ed il compositore, chiamato a dirigere il neonato Conservatorio di New York (avrebbe percepito 20 volte la sua paga in patria), decide di affrontare una lunga tournée con Wihan e Ferdinand Lachner al violino. Suonano in trio, Dvořák è al pianoforte (con una certa difficoltà, viste le modeste doti strumentali del compositore). Manca, però, del repertorio per Wihan e Dvořák, tra il Natale e Santo Stefano dell’anno 1891 assembla il Rondò op.94 nella versione con accompagnamento pianistico (l’orchestrazione arriva due anni dopo, tra la Sinfonia “Dal Nuovo Mondo” ed il citato Concerto op.104). Si tratta di una breve pagina, piuttosto convenzionale nella forma ma densa di espressione e perizia tecnica per il solista. La struttura si basa su tre sezioni, la centrale della quali è un Allegro vivo vitale e ritmico, fondato su una mutevolezza metrica che ricorda l’acceso nazionalismo estetico di Dvořák. La scrittura del violoncello passa senza soluzione di continuità dal lirismo al virtuosismo, mostrando così i due estremi dell’espressione del nostro strumento. Una compagine sinfonica basata sugli archi, solo due oboi, due fagotti e timpani, è lo sfondo ideale per proiettare la tessitura del violoncello, per anni ritenuto dal compositore “troppo nasale negli acuti e poco incisivo nella regione grave”. Wihan seppe far mutare questa opinione, per nostra fortuna.

Aleksandr Glazunov è un compositore noto ed apprezzato, anche se la sua musica non ha mai trovato un uditorio affezionato al di fuori dei confini sovietici. Fatta eccezione per pochi brani, il suo catalogo è una raccolta di composizioni che mostrano con competenza la transizione della musica russa dal nazionalismo del Gruppo dei Cinque ad un’accademia improntata al modello europeo. Glazunov studia con Rimskij-Korsakov, il più dotato dei Cinque. E’ un allievo particolarmente caro al suo insegnante, che lo ospita in casa e ne cura la formazione in ogni dettaglio. Il ragazzo si forma con un’indole generosa nell’animo e perfezionista nella cultura: compone senza sosta e si impegna sin da giovane a formare e sostenere le nuove leve. Non si contano le lettere di presentazione che scrive, per Iasha Heifetz e Misha Elman all’inizio della loro carriera, così come è famoso il sostegno per Šostakovič, per il quale Glazunov si adoperò senza sosta per far suonare la sua Sinfonia n.1, elaborato altissimo del suo diploma di composizione. La musica di Glazunov, attenta alla modernità, resta però romantica nei contenuti e nell’eloquenza lirica. Il mondo medievale è uno dei suoi luoghi d’ispirazione: al Concerto-Ballata per violoncello si affianca il Canto del Menestrello, poeta cantore circondato da una fosca aura che sa di libertà, di ipersensibilità ma anche di accesa passione affatto confessionale. Il violoncello è lo strumento ideale per impersonare un carattere così sfaccettato. La pagina di Glazunov è semplice, pura espressione in una forma ternaria di agevole percezione. Il tono è cantabile e mai troppo acuto, come a voler rendere strumentale una voce di tenore ideale. L’orchestra è ampia ma l’equilibrio con il solista è sempre assicurato, grazie anche al severo studio con l’abile orchestratore Rimskij-Korsakov. L’orchestra è quasi sempre sullo sfondo, anche se non mancano, nelle frasi finali, brevi interventi dei fiati e adornano la linea del violoncello, conferendo così coesione strutturale alla ripresa del tema iniziale.

Se le due brevi pagine di Dvořák e Glazunov sono brani di carattere, le Variazioni di Caikovskij sono invece un inventario completo della tavolozza espressiva e tecnica del violoncello romantico, pur condito di classicismo. Anche stavolta troviamo un tecnico dello strumento, lo straordinario Wilhelm Fitzenhagen (1848-1890), tedesco del Ducato di Brunswick, allievo del Grützmacher e presto egli stesso professore al Conservatorio di Mosca. Fitzenhagen è un uomo dalla personalità ben marcata, l’opposto della delicatezza e della sensibilità di Caikovskij, ma l’ammirazione tra i due è forte. Il classicismo viennese affascina da sempre la fantasia del compositore e Mozart, sua massima espressione, è la scintilla del suo genio (e l’origine dei suoi studi musicali). Nel 1876 Caikovskij ha completato la Fantasia su Francesca da Rimini, e come per depurarsi dai furori dell’Inferno dantesco volge al passato il suo sguardo per recuperare una forma ed uno stile al quale periodicamente vorrà rifarsi durante la sua parabola creativa. Non esiste una vera e propria musica “rococò”. Il termine, peraltro peggiorativo, si riferisce ad uno stile architettonico decorativo fiorito in Francia e connotato da audaci ed eleganti arabeschi, a volte informati da una certa frivolezza. In questo senso può essere tangenzialmente rococò la musica di Mozart ma anche quella di Couperin. Il tema di Caikovskij è interamente di sua invenzione, ed il suo sapore antico è più nella simmetria della sua struttura che nello stile che vuole imitare. Romanticismo e classicismo scorrono su binari paralleli in questa composizione, secondo leggi non replicabili che conferiscono un fascino speciale alla partitura. L’orchestra è antica nella composizione ma moderna nell’uso che ne fa Caikovskij, una sorta di specchio degli “affetti” che il solista propone nelle diverse variazioni. Caikovskij è un fine pianista ma non è così esperto di strumenti ad arco. Fitzenhagen collabora attivamente alla stesura delle Variazioni, al punto che sul manoscritto la sua calligrafia ricopre quella del compositore nella maggioranza delle battute. Lo stesso editore Jurgenson se ne lamenta con Caikovskij, temendo che la mano del tecnico possa banalizzare la partitura e conferire una scrittura troppo accesa ed oleografica al lavoro nel suo complesso. Caikovskij ha fiducia nel violoncellista e ritiene di poterlo tenere a bada. Non è così: Fitzenhagen porta le Variazioni in giro per l’Europa e, non si sa come, riesce ad intervenire sulle bozze pronte per la stampa. Il risultato è che le Variazioni, così come le ascoltiamo oggi, sono in un ordine diverso da quello previsto dal compositore, e la stesura della parte del solista non ha granché a che fare con le intenzioni creative iniziali. Un certosino lavoro filologico ha sottoposto il manoscritto ai raggi X e di recente è stata ricreata la partitura secondo le indicazioni del compositore, ma sarà difficile scardinare questa abitudine esecutiva.

D’altra parte il brano funziona benissimo così come lo conosciamo, e gran parte del suo fascino risiede proprio in una scrittura violoncellistica di estremo virtuosismo inserita in un contesto musicale e strutturale molto raffinato. Il tema informa ogni variazione, ed ogni episodio ne presenta un aspetto diverso: dall’ironia alla leggerezza, dal sapore fantastico a quello elegiaco, dal valzer-non valzer alle codette delle singole variazioni, fino alla funambolica Coda che conclude il lavoro.

“Mia madre amava la musica, mio padre la rispettava (…). Non posso affermare che mia madre avesse talento musicale, ma aveva tre virtù musicali: la caparbietà, l’amore, il gusto”. Così Prokof’ev riguardo alla sua famiglia in un testo autobiografico, una dichiarazione schietta in linea con la sua personalità, ma eloquente in merito al proprio atteggiamento verso la musica, una disposizione chiaramente mutuata dall’ambiente familiare ma anche una chiave per leggere la sua vita e la sua opera. Il talento di Prokof’ev, sia come pianista che come compositore, fu evidente sin dalle sue prime prove musicali. Un orecchio infallibile, una straordinaria capacità di assorbire, imitare e sconvolgere modelli compositivi, un’innata percezione del buon gusto unita ad una libertà creativa che gli permise di sfidarlo. La Sinfonia Classica, la prima delle 6 sinfonie che Prokof’ev compose in quarant’anni di produttività febbrile, è spesso il brano d’ingresso per l’appassionato di musica sinfonica nell’opera del russo (ucraino di nascita ma solo per necessità); musica sfavillante, di facile ascolto, singolarmente lontana dalla maggior parte della sua produzione, ma estremamente significativa allo stesso tempo. A dispetto di ogni considerazione di tipo politico (vedi i premi Stalin ed il difficile rapporto con il tormentato collega Šostakovič), Prokof’ev fu un compositore libero e quindi imprevedibile, perfettamente inserito nel suo tempo ma sempre ben conscio della modernità e del passato. La Sinfonia Classica fu composta in un periodo difficile: alla catastrofe militare della Prima Guerra Mondiale (1917) si affiancava la disintegrazione del governo zarista, seguita in breve dalla Rivoluzione Russa. Il compositore stesso aveva assistito ad episodi violenti durante la rivoluzione del febbraio 1917 in Pietrogrado, ma sembra che la situazione generale l’avesse scosso ben poco. In volontario isolamento nella campagna della regione di Pietroburgo, e senza l’ausilio di un pianoforte, egli mise mano alla composizione di una sinfonia con la quale intendeva rendere omaggio ai modelli del passato, in particolare a quell’Haydn, vero genitore della forma sinfonica, che aveva così approfonditamente studiato con Nikolaj Čerepnin, suo insegnante di direzione d’orchestra presso il già glorioso Conservatorio di Pietroburgo. “Pensavo che se Haydn avesse vissuto nella nostra epoca, egli avrebbe mantenuto il proprio stile accettando al tempo stesso qualche nuovo elemento”, Prokof’ev scrisse nella sua autobiografia. Queste parole sono molto discutibili, è ovvio per chiunque, ma mostrano con chiarezza le coordinate estetiche entro cui volle muoversi. Lo spirito generale della Sinfonia è leggero, piuttosto estroso e sempre netto nel gesto musicale. La forma è volutamente semplice ed aderente a quella trasparenza strutturale che Haydn insegnò nelle sue sinfonie. Il linguaggio armonico nel complesso usa armi dichiaratamente tonali, a volte anche più semplici rispetto al modello settecentesco, speziate da guizzi e giustapposizioni di toni che si rifanno ad epoche più recenti. La novità si affaccia invece nel suono, particolarissimo ed inimitabile, dell’orchestra di Prokof’ev, un ensemble agile che vuole riappropriarsi di un linguaggio divenuto estraneo e che spesso compie “errori” di pronuncia. La distribuzione delle parti nell’orchestra è audace, gli strumentini sono spesso trattati a coppie e mostrano intenti virtuosistici, gli archi  si muovono su una tessitura molto ampia, ben più che in Haydn, e secondo uno stile che ricorda le orchestre virtuose del Settecento (vedi Mannheim). E’ difficile accostare questa Sinfonia alle successive di Prokof’ev, forse (anche per via dell’inserimento di una Gavotta) è più avvicinabile all’architettura di una Suite, ma nonostante ciò per il compositore volle essere la prima sinfonia, un omaggio al passato, un esercizio di stile ed una dichiarazione estetica e di libertà che anticipa di due anni il neoclassicismo di Stravinskij e che nulla ha che spartire con esso.