Concerto dedicato a Igor Markevitch - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 17 marzo 2005
Ore: 21:00
sabato 19 marzo 2005
Ore: 17:00

Giovedì 17 marzo, ore 21 Teatro Dal Verme
Sabato 19 marzo, ore 17 Teatro dal Verme

Lunedìì 21 marzo, ore 21 Teatro Vderdi – Padova

Direttore:
Aldo Ceccato
Pianoforte:
Duo Moneta – Rota
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Programma:
Concerto dedicato a Igor Markevitch

Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847)
“Le Ebridi”, ouverture op.26
Concerto per due pianoforti e orchestra, in la bem. maggiore
Allegro vivace
Andante
Allegro vivace

Sinfonia n.4 op.90 “Italiana”, in la maggiore
Allegro vivace
Andante con moto
Con moto moderato
Saltarello. Presto

Il Concerto:
a cura di Andrea Dicht
Con l’appuntamento odierno si conclude il viaggio, iniziato mesi fa, all’interno della produzione sinfonica e solistica di Mendelssohn. Abbiamo incontrato ouvertures più o meno note, le sinfonie per grande orchestra, concerti, ma anche brani per pianoforte e orchestra facenti parte di una tradizione concertistica oggi desueta. Attraverso questi brani abbiamo conosciuto le varie sfaccettature di una personalità musicale e umana complessa ma dal profilo solido e piuttosto atipico, quando la si confronta alle sofferenze e agli spasimi di altri autori suoi contemporanei o appena successivi.
La musica di Mendelssohn si nutrì anche delle impressioni di viaggio di una vita assai moderna, se vista in termini di capacità di spostamento. Egli era un giovane ma illustre uomo di venti anni quando viaggiò da Berlino a Napoli, Vienna, Parigi, Londra, e a nord, fino alle Isole Ebridi. Giunto nella patria del preromanticismo inglese, quello di Walter Scott e dei poemi di Ossian, Mendelssohn visitò le isole e, in particolare, la piccola isola di Staffa, al largo della costa occidentale della Scozia, dove è situata la famosa grotta di Fingal, nome del leggendario padre proprio di Ossian. Fingal è un eroe appartenente alle confinanti mitologie scozzese e irlandese, e la grotta a lui intitolata è parte di una serie di caverne spettacolari che si aprono sulla costa dell’isola. Molto profonda, è sostenuta da un lato da una linea di basalto segnatamente rossa e marrone, riccamente decorata da alghe e licheni in verde e oro, sulla cui superficie occhieggiano macchie bianche di limo che è filtrato insinuandosi tra le pareti. Lo spettacolo è grandioso e, quando il mare è clemente, la grotta è visitabile. I coraggiosi che vi fanno ingresso notano tutti il costante mormorio delle onde, che le ha fatto guadagnare anche il soprannome di “grotta della musica”.
Il poeta Carl Klingemann, che visitò la grotta con Mendelssohn, così ricordò l’avventura: «Eravamo tutti sulle barche e raggiungemmo, col sibilante mare alle nostre spalle, i monchi pilastri della famosa grotta di Fingal. Il tuono delle acque di certo non era mai giunto all’interno della straniera caverna, paragonabile per via dei molti pilastri all’interno di un immenso organo, nero e risonante, che vi giace assolutamente inutilizzato e solitario, il grigio mare dentro e fuori». La musica cristallizzò immediatamente nell’immaginazione di Mendelssohn. Il giorno stesso della visita alla grotta, il 7 agosto 1829, scrisse alla sorella Fanny: «Per farti capire quanto straordinariamente le Ebridi mi hanno impressionato, questo tema mi venne in mente proprio lì», e segue un piccolo pentagramma nel quale sono notate le prime tre misure dell’ouverture. Mendelssohn portò con sé questo tema e la selvaggia, romantica impressione dell Ebridi fino a Roma, dove completò la prima versione dell’ouverture, nel dicembre 1830. Più di un anno dopo, però, egli non era ancora soddisfatto della partitura che aveva scritto. Così scrisse alla sua famiglia, da Parigi, il 21 gennaio 1832: «Non posso presentare qui le “Ebridi”, perché non la considero… pronta. La sezione centrale è molto sciocca. L’intero cosiddetto sviluppo sa più di contrappunto che di olio di balena, di gabbiani e di olio di fegato di merluzzo, e invece dovrebbe essere così». Nelle settimane successive egli revisionò la partitura e la sua prima esecuzione avvenne dal manoscritto in un concerto organizzato dalla London Philharmonic Society, il 14 maggio 1832, sotto la direzione di Thomas Attwood. Mendelssohn scrisse ancora: «È andata benissimo, e suonava così strana tra le cose di Rossini». Egli continuò comunque a rivedere l’ouverture, e la versione che è entrata ormai in repertorio è il risultato di un accurato lavoro di perfezionamento del compositore. Il titolo stesso, come qualche appassionato di musica avrà notato in dischi e programmi, è variabile: alla prima esecuzione londinese della versione definitiva il brano era intitolato “Le isole di Fingal”. Nelle sue lettere Mendelssohn utilizza allo stesso modo i titoli “Le Ebridi” e “L’isola solitaria”, la prima partitura pubblicata recava come titolo “La grotta di Fingal”, mentre sulle parti orchestrali figurava la dicitura “Le Ebridi”. Al di là della questione del titolo, l’ouverture ha guadagnato a pieno diritto la notorietà di cui oggi gode. È musica descrittiva della migliore qualità, pur inbrigliata in una forma-sonata ben solida e informata da due temi fondamentali: il primo è quello che apre il brano, il più famoso, e che disegna le onde del mare, il secondo (violoncelli e fagotti) è invece più cantabile, una lunga melodia che tende verso la regione acuta, di carattere più evocativo che simbolico. Nella struttura sono inseriti due momenti culminanti, uno appena prima della ripresa dei temi (ricapitolazione) e l’altro nella sezione conclusiva dell’ouverture. Le stesse ultime misure sono una sorpresa, grazie all’improvviso svanire di ogni magniloquenza tempestosa per terminare il brano con un’ulteriore comparsa, in pianissimo, del tema iniziale. Il mare apre e chiude l’avventura, la suggestione della visuale è però ciò che più profondamente va ad annidarsi nella nostra memoria, sotto forma di suoni ma anche di immagini evocate. Il Romanticismo è leggibile anche sotto forma di una lunga, e forse ancora mai terminata, querelle sulla liceità della descrizione musicale. Non è questo il luogo per addentrarsi in una questione tanto spinosa, ma di certo ogni ascolto di questo tipo di musiche non può che costituire un’esperienza che apre la capacità di astrazione di ogni amante della musica, e allo stesso tempo non può non farci riflettere sulle grandi potenzialità di creazione dell’immagine possedute dalla musica. Forse è meglio chiudere gli occhi quando si ascolta; non è detto che si perdano informazioni e dettagli.
Gli occhi van tenuti ben aperti, invece, quando ascoltiamo brani giovanili, virtuosistici e stupefacenti come il Concerto in la bemolle maggiore per due pianoforti e orchestra di Mendelssohn. Sulla sua produzione per strumento solista e orchestra molto è stato detto e scritto, anche se nel repertorio comune dei solisti e delle orchestre del mondo i brani di questa categoria che godono della più ampia notorietà sono fondamentalmente due: il Concerto per violino op.61 del 1838/44 ed il primo Concerto per pianoforte op.25 del 1830/31. Hanno un numero d’opera e sono stati pubblicati vivente l’autore (oltre ai brani citati) solo le partiture del secondo Concerto per pianoforte (op.40, 1837) e quelle di tre brani meno ampi per la stessa formazione. Tra il 1822 e il 1824 Mendelssohn, poco più che ventenne, compose molta musica solistica che, se da un lato può essere considerata come un lavoro formativo in vista di una produzione successiva, tuttavia non è inferiore al resto della sua opera, in particolare sotto il profilo dell’ispirazione e della freschezza di idee. Il recupero, o spesso il rinvenimento, di queste musiche è il risultato di una ricerca tutta novecentesca, di solito grazie all’interessamento di importanti personalità musicali: ne è un esempio la pubblicazione nel 1952, ad opera di Yehudi Menuhin per i tipi della Peters, del Concerto per violino e archi del 1822.
Mendelssohn compose due concerti per 2 pianoforti e orchestra, rispettivamente negli inverni 1823 e 1824. Considerati perduti, anche se ben presenti nelle notizie biografiche sul compositore, i manoscritti di questi brani e del Concerto per violino, pianoforte e archi (anch’esso perduto) furono ritrovati nel XX secolo e divennero una pedina dei giochi diplomatici della Guerra Fredda: nello scambio di libri occidentali che giacevano a Berlino Est, una copia microfilmata dei manoscritti riuscì a trovare la strada da Berlino a New York e i lavori vennero eseguiti e pubblicati negli anni ‘50.
I Concerti per 2 pianoforti e orchestra di Mendelssohn, in mi maggiore e in la bem. maggiore, furono composti con ogni certezza come omaggio del compositore alla sua amata sorella Fanny, anch’ella valente pianista e compositrice di ottimo valore (probabilmente il primo dei due brani fu un regalo di compleanno di Felix a Fanny). Nei primi anni ‘20 dell’Ottocento, anche se giovanissimo Mendelssohn era già un compositore esperto, non foss’altro che per l’approfondito studio e le numerose prove di creazione musicale alle quali si adoperava con costanza. Maestro dei maestri era per lui Bach, e la storia della musica deve molto alla sua opera di divulgazione se nella ricezione moderna Bach occupa il posto che conosciamo. Non di meno nella giovanile produzione di Felix si rinvengono tracce dello studio di Bach e della severa scuola che la sua opera lascia trasparire. Mendelssohn, però, fu sempre un compositore atipico, pur nella serenità della sua formazione e nella sua capacità di assorbire tutto ciò che conosceva della scuola antica: il brano che oggi ascoltiamo è costruito, sì, su solide basi contrappuntistiche, ma allo stesso tempo tradisce il perfetto inserimento del musicista nella temperie romantica, sia sul piano strutturale compositivo, sia su quello del virtuosimo pianistico.
Si tratta di una partitura molto ampia (il solo primo movimento conta circa 600 misure) e forse l’influenza più evidente, oltre all’esteso fugato del finale che ricorda lo stile di Bach, è quella di Beethoven, in particolare per quanto riguarda la scelta delle tonalità in cui è tagliato il brano (un accenno all’impianto armonico del Concerto Imperatore) e la presenza di un tema, quello d’apertura, fortemente apparentato ad un tema del finale della Quinta Sinfonia di Beethoven. Sono rintracciabili altre suggestioni estetiche, come ad esempio quella molto evidente ma oggi poco significativa, del Concerto n.2 per pianoforte di John Field, un compositore irlandese che era molto noto all’inizio dell’Ottocento. Non sono però questi i dati più interessanti: la nostra attenzione deve essere rivolta tutta alla maturità di un compositore quindicenne e alla fantasia che guidava ogni suo atto creativo. Se le sue capacità pianistiche (e quelle di sua sorella) si mostrano chiaramente durante l’esecuzione, il suo talento creativo va invece ricercato nella varietà degli interventi, sia solistici che sinfonici, e nell’intento di costruire un’opera su larga scala pur disponendo di mezzi limitati. Su questo fattore tecnico della sua arte non ci si soffermerà mai abbastanza, e spiegarlo con l’eccellenza della sua formazione artistica e culturale non rende merito al suo talento. Mendelssohn fu spesso paragonato, sin da giovane, al geniale Mozart, altro fanciullo prodigio. Nel primo Ottocento Mozart era già entrato nel canone dei grandi compositori del passato, anche se in maniera meno estesa che oggi. La vita musicale di quel periodo stava subendo mutamenti profondi che sono alla base della moderna teoria della ricezione: l’autorità musicale, quella delle figure alte e intangibili, andava secolarizzandosi, nascevano le società di concerti e si cominciava a organizzare esecuzioni pubbliche alle quali accedere attraverso il pagamento di un biglietto, una nuova borghesia (figlia della rivoluzione industriale e sempre più cosciente di sé) chiedeva nuova musica ma cominciava ad esprimere interesse per quella del passato, la musicologia come disciplina nasceva ed indirizzava scientificamente un lavoro filologico di recupero del passato che si rifletteva in un’evoluzione dei gusti e delle mode.
In questo panorama la figura di Mendelssohn si inserisce come totalizzante, ovvero come quella di un musicista di ampio respiro: ogni ambito dei suoi interessi, così variegati, è in relazione col resto della sua attività, e stabilire dove arriva il virtuoso, dove comincia il compositore, dove si esprime il ricercatore e l’uomo di cultura, è limitante e allo stesso tempo fuorviante.
La Sinfonia “Italiana” è, come l’ouverture “Le Ebridi”, un esempio dell’accesa sensibilità di Mendelssohn e uno dei picchi della sua arte compositiva. Egli aveva ventun anni quando decise di dirigersi verso l’Italia, passando per la Germania meridionale. «Questa è l’Italia. Ciò che ho desiderato per tutta la mia vita come la gioia più grande ha ora inizio, e io ne sono deliziato», così scriveva Felix il 10 ottobro 1830, poco dopo il suo ingresso nel Bel Paese. L’aspettativa era enorme e di certo ancor più infiammata dai racconti che, poche settimane prima, in Germania, l’ultraottantenne Goethe aveva condiviso con il giovane musicista. La musica che andiamo oggi ad ascoltare, però, non è meramente descrittiva come l’ouverture appena eseguita. L’”Italiana” è una sinfonia di suggestioni, di sensazioni evocate dalla permanenza in una terra che ai nordici appariva sia come culla di una gloriosa civiltà passata che come luogo esotico al pari dell’Africa settentrionale. Non dobbiamo quindi aspettarci puntuali caratterizzazioni come le onde del mare scozzese, ma non per questo il ritratto che ne ricaviamo della nostra patria è meno centrato e significativo. «Mi sentivo come un giovane principe» è ciò che Mendelssohn ci racconta qualche tempo dopo, ricordando la sua permanenza, e forse da questa sua sensazione si può partire per intendere l’energia che emana immediatamente dall’inizio della Sinfonia, un Allegro vivace che non è preceduto da alcuna introduzione, retorica o programmatica. Su uno sfondo di brillanti legni si staglia il tema dei violini, simile ad un guizzo scintillante di luce, una sorta di richiamo all’avventura, in senso astratto un’introduzione che è già tema ed esposizione del materiale del primo movimento. A questo tema fa da contraltare un secondo affidato alla coppia di clarinetti, non meno energico ma più melodico, più vicino al canto e tagliato su suoni più legati. La forma complessiva è la tradizionale forma-sonata, con uno sviluppo informato dai due temi principali ed una ricapitolazione del materiale melodico complessivo.
Da una lettera a Fanny, 22 febbraio 1831: «La sinfonia Italiana fa grandi progressi. Sarà il pezzo più gioviale che ho mai scritto, in particolare l’ultimo movimento. Per il movimento lento non ho anora trovato nulla, e penso che lo terrò per Napoli [Mendelssohn era a Roma, in quei giorni]». Non sappiamo se Napoli ispirò davvero Mendelssohn per la composizione dell’Andante con moto, e la musica che vi è contenuta non esprime particolari riferimenti a quella città. La tradizione vuole che la dolente melodia dei legni su un pizzicato dei violoncelli e contrabbassi, che connota questo movimento, sia stata suggerita a Mendelssohn da una processione religiosa alla quale, questo è certo, il compositore assistette tra le vie di Napoli. Nelle lettere e nelle testimonianze che conosciamo non vi sono riferimenti che leghino i due eventi ma, da un punto di vista squisitamente musicale, è certo che la melodia di Mendelssohn è molto somigliante a quella di una ballata (“Es war ein König in Thule”) musicata da Carl Zelter, suo insegnante di composizione a Berlino.
Il terzo movimento è un esempio del miglior Mendelssohn, un brano delicatissimo con lo sguardo più rivolto al minuetto della sinfonia settecentesca che allo scherzo introdotto da Beethoven nella struttura sinfonica. Un evidente ma non facilmente percepibile incertezza metrica rende questo movimento, Con moto moderato, un brano ottocentesco, fresco nell’ispirazione e dinamico grazie alla sezione centrale del Trio, connotato da richiami (ancora dei legni) che si rifanno ad alcune figurazioni del Sogno di una Notte di mezza estate.
Conclude la sinfonia il movimento più noto e caratteristico di questa partitura, un indiavolato Saltarello: Presto, un’antica danza popolare italiana basata su terzine in rapida successione, proprio come quelle degli archi all’inizio del brano. Con ogni probabilità l’atmosfera complessiva fu suggerita a Mendelssohn dal carnevale romano, un’esperienza che visse e si impresse indelebilmente nei suoi ricordi: «Arrivai al Corso [via del Corso], e non pensavo a nulla, quando improvvisamente fui assalito da una pioggia di caramelle. Guardai in alto e vidi alcune donne che avevo occasionalmente incontrato ai balli, ma che appena riconoscevo, e quando, in totale imbarazzo, mi tolsi il cappello per rendere loro omaggio, la pioggia aumentò di intensità. (…) Disperato, raccolsi i confetti di zucchero e li rilanciai. (…) La giornata si concluse con le corse di cavalli».
Chiunque stenterebbe a credere che questa sinfonia costò a Mendelssohn alcuni dei giorni più amari della sua esistenza. Questo è ciò che egli stesso disse, e l’amarezza fu dovuta al suo atteggiamento ipercritico verso la musica. La prima versione della Sinfonia “Italiana” fu completata a Berlino nel 1833 ed eseguita per la prima volta a Londra, sotto la bacchetta del compositore, il 13 maggio dello stesso anno. Un anno dopo l’esecuzione decise di rivedere la partitura e ne riscrisse intere sezioni. Mendelssohn non permise mai la pubblicazione di questa sinfonia, e morì senza riuscire a soddisfare il suo desiderio di migliorare questo suo capolavoro. La prima esecuzione tedesca fu postuma.

TIZIANA MONETA – GABRIELE ROTA
TIZIANA MONETA (formatasi alla scuola di Carlo Pestalozza, Jörg Demus, Nikita Magaloff, Ilonka Deckers e Vittorio Fellegara) e GABRIELE ROTA (allievo di Tiziana Moneta, Aldo Ciccolini e Vittorio Fellegara) si sono costituiti in Duo pianistico nel 1986. Per la particolare qualità, subito affermatasi nei giudizi di critica e di pubblico, si sono imposti come una delle formazioni più interessanti, internazionalmente nota per la straordinaria duttilità interpretativa e l’impegno volto all’individuazione di autori significativi nella produzione originale per pianoforte a quattro mani e a due pianoforti, che ha permesso l’acquisizione di un vastissimo repertorio. Il Duo è regolarmente ospite delle più prestigiose sedi concertistiche quali l’Accademia Chigiana di Siena, l’Accademia Filarmonica Romana, le Serate Musicali Internazionali in Sardegna, l’Ente Arena di Verona, l’Estate Musicale Fiesolana, gli Incontri Europei con la Musica di Bergamo, la Rassegna Spaziomusica di Cagliari, il Festival Rive-gauche di Torino e, in collaborazione con la RAI, a Roma per Nuovi Spazi Musicali, Nuova Consonanza, a Trinità dei Monti e negli Studi di via Asiago; ha tenuto inoltre numerosi concerti in Germania, Ungheria, Regno Unito, Portogallo, Croazia, Polonia (Museo Chopin di Varsavia), Romania, Spagna (Centro de Arte Reina Sofia di Madrid), XXI Festival di Musica Contemporanea ‘99 di Mosca, Fondazione BORUSAN di Istanbul…, spesso in trasmissione diretta per le emittenti Radio di tutta Europa. Notevole è anche l’impegno nei confronti degli autori contemporanei, di cui il Duo ha inciso ed esegue abitualmente in importanti festival in Italia e all’estero novità assolute, espressamente scritte da compositori di tutto il mondo. L’intensa attività discografica, sempre accolta con entusiastici apprezzamenti, ha sortito CD per Sipario, Edipan, Incontri Europei con la Musica, La Bottega Discantica (con musiche di Brahms, Schubert, Stravinsky, Debussy, Ravel, Respighi e dei più importanti musicisti italiani d’oggi). I due pianisti tengono conferenze e masterclass in Italia e all’estero.