Le date
Giovedì 25 novembre, ore 21
Sabato 27 novembre, ore 17
Sala Grande del Teatro Dal Verme
Concerto dedicato a Nathan Milstein
Direttore :
Aldo Ceccato
Violino:
Renaud Capuçon
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Programma:
Umberto Rotondi (1938)
Per Orchestra (ovvero: Omaggio a Mendelssohn)
Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809 – 1847)
Concerto per violino e orchestra in mi minore op.64
Allegro molto appassionato
Andante Allegretto non troppo, Allegro molto vivace
***
Sinfonia in do minore n.1 op.11
Allegro molto Andante Menuetto: Allegro molto Allegro con fuoco
Il Concerto
a cura di Andrea Dicht
L’omaggio che Umberto Rotondi vuole rendere a Mendelssohn e offrire al nostro pubblico consiste in un brano che richiede un ascolto diverso da quello a cui la musica di repertorio ci ha abituati. Mettiamo da parte il concetto di architettura formale ed ogni tendenza analitica che di conseguenza, più o meno consciamente, accompagna la nostra percezione della musica, e ascoltiamo. L’omaggio al grande compositore protagonista della nostra Stagione è da intendersi come tributo agli stati d’animo che Mendelssohn suscita con la sua musica, e sotto questa lente debbono essere letti i riferimenti di Rotondi al compositore. Non sono variazioni su temi prestabiliti, così come non si tratta di elaborazioni più o meno artificiose di un materiale musicale decontestualizzato: più del profilo melodico dei testi di Mendelssohn, Rotondi preferisce desumere una struttura ritmica che va considerata come la parte più vitale e brutale del dettato musicale di origine. Allo stesso modo, gli eventi sonori che informano questa partitura vanno intesi come gesti che nascono e muoiono, per cui il compositore, Rotondi, si configura come un mero mediatore di eventi, che egli aiuta a prendere posto sulla carta e a tradursi in fenomeni fonici. La fruizione di questi eventi prevede che l’ascoltatore sollevi ogni giudizio di tipo analitico, perché l’architettura non c’è, non vi è precostituzione e, ad esempio, ogni indicazione agogica (Allegro o Adagio, etc.) va letta come suggerimento di uno stato d’animo anziché come imposizione metronomica e quindi esclusivamente esecutiva.
Così come per la genesi del Concerto per violino di Brahms e di molti altri famosi brani per strumento solista e orchestra del romanticismo, anche nel caso del Concerto op.64 di Mendelssohn possiamo parlare di collaborazione tra un importante esponente del violinismo ed un compositore di grande talento. Il violinista che lavorò al fianco di Mendelssohn fu Ferdinand David, tedesco di Amburgo, di un solo anno più giovane del compositore ma altrettanto dotato sin dall’infanzia. Definire David un virtuoso del violino (come potè esserlo Joachim, per Brahms) è riduttivo e non del tutto esatto. Le cronache dell’epoca, ed in primo luogo le impressioni che ne lasciò Schumann nelle sue acute recensioni sulla Neue Zeitschrift für Musik, ci disegnano il profilo di uno strumentista di ampie vedute e allo stesso tempo, seppure secondo un’estetica romantica oggi inaccettabile ed anacronistica, di un musicista che seppe eccellere ed imporsi su molti fronti.
Come violinista fu allievo di Spohr, comprese appieno la sua importante scuola violinistica e seppe infonderla come didatta ad allievi importanti come Wilhelmj, Wasielewski e lo stesso Joachim. Scrisse un importante metodo per l’apprendimento del violino e molto note furono le sue rielaborazioni di importanti composizioni, tra cui le Sonate e Partite di Bach, o di molta musica barocca che egli contribuì a far conoscere. Compose inoltre molta musica, sia per il suo strumento che vocale, da camera e sinfonica, e le sue composizioni furono molto eseguite durante la sua vita. Mendelssohn conobbe David nel 1825, quando quest’ultimo era già un violinista in carriera nonostante la sua giovanissima età. Nacque così un sodalizio artistico ed umano che durò più di un ventennio, interrotto solo dalla prematura scomparsa del compositore (David fu comunque al capezzale di Mendelssohn, e dopo la sua morte si adoperò vivacemente per una giusta considerazione della sua opera).
Mendelssohn, a sua volta, fece di tutto per potersi avvalere delle capacità artistiche di David: nel 1836 il compositore, da poco nominato direttore del Gewandhaus di Lipsia, riuscì a conferirgli l’incarico di primo violino solista nella sua orchestra e, nel 1843, lo mise a capo del dipartimento di violino nel neonato Conservatorio della stessa città.
Il Concerto per violino di Mendelssohn, così come lo conosciamo oggi, fu il risultato di una lunga gestazione, sia nell’immaginazione del compositore, sia in sede di redazione della parte solistica, attraverso le indicazioni di David. La corrispondenza di Mendelssohn può aiutarci a tracciarne le tappe fondamentali. Già nel luglio 1838, quando la collaborazione tra i due era già più che consolidata, il compositore parlava di un inizio di concerto per violino “che non gli dava pace”, ne tracciò alcuni schizzi ma essi, per almeno un anno, si fermarono alla terza nota dall’ingresso del solista. Il concerto fu messo da parte e scomparve dalla corrispondenza per qualche anno. Nel marzo 1842 Mendelssohn si occupò di un nuovo concerto per pianoforte, e due anni dopo stava ancora completando un concerto per pianoforte per l’Inghilterra.
Un autografo di diverse pagine in partitura completa reca due movimenti di quello che avrebbe dovuto probabilmente essere il terzo concerto per pianoforte di Mendelssohn. Era in mi minore, fattore che lo apparenta con il concerto per violino. Dovevano esserci tre movimenti collegati da episodi di transizione e il compositore schizzò solo fino al collegamento al finale.
Non sappiamo esattamente quando Mendelssohn volse il concerto in favore del violino, ma nel settembre 1844 aveva già completato la partitura orchestrale del Concerto op.64.
Nondimeno, finito il lavoro sull’orchestra, Mendelssohn fu assalito da molti dubbi e corrispose con David su molti dettagli. Alla fine dell’anno egli stava addirittura preparando una seconda partitura corretta, con l’aiuto del suo copista principale, Eduard Henschke. Fu in questa forma che David presentò pubblicamente la prima esecuzione di questo lavoro, avvenuta il 13 marzo 1845 a Lipsia. Mendelssohn si ammalò, non poté dirigere il concerto né ascoltarlo, e l’orchestra fu lasciata nelle mani del compositore danese Niels Gade.
Il Concerto entrò subito nel canone dei capolavori europei e servì da modello a molti compositori, pur essendo atipico nella sua struttura generale. I tre movimenti di cui è composto si susseguono ininterrotti, collegati da episodi di transizione che conferiscono all’architettura generale un senso di compattezza piuttosto evidente.
Sin dall’inizio del primo movimento, Allegro molto appassionato, si ha subito un segno della novità di questo brano: anziché aprirsi con un’introduzione orchestrale, come da tradizione, è il solista a presentare il famoso primo tema, dopo poche note di accompagnamento, un vero capovolgimento del tradizionale schema tutti-solo. Al tema succede un primo episodio già di carattere virtuosistico, a cui fa seguito una riesposizione del primo tema da parte di tutta l’orchestra. Un nuovo solo ci conduce al lirico secondo tema, esposto dai legni sulla base di un sol-corda vuota del violino, che poi si impadronisce anche di questo nuovo tema, sviluppandolo. I toni della composizione tornano accesi, in un clima di forte scambio ed interazione tra il solista e l’orchestra, e la sezione centrale del movimento, lo sviluppo, appare dominata quasi interamente da frammenti del primo tema. Qui incontriamo la seconda grande novità di questo Concerto: al termine dello sviluppo, poco prima della ripresa, Mendelssohn colloca una Cadenza del solista, in un luogo tradizionalmente inadatto ad ospitare un assolo così lungo. La ripresa del primo tema avviene di seguito alla cadenza: mentre il solista è ancora impegnato nei suoi arpeggi i legni espongono il tema e, dopo una breve transizione, anche il secondo tema torna alla ribalta, di nuovo affidato agli strumentini su un pedale del solista. Un brusco cambio di atmosfera è il segno dell’inizio della Coda, interamente pervasa dalle evoluzioni del violino, su un’orchestrazione che si fa sempre più pressante.
Dall’ultimo accordo dell’orchestra rimane “acceso” un fagotto, accompagnato man mano da altri strumenti, fino alla creazione di un tappeto di archi che può ospitare la melodia principale, affidata al solista, dell’Andante. Gran parte di questo secondo movimento è dominata dal violino, in tutte e tre le sezioni in cui la struttura è suddivisa. Dalla prima parte, serena, si passa ad una sezione centrale più agitata e contrassegnata da una figurazione del violino in cui lo stesso solista presenta melodia ed accompagnamento in tremolo su due corde. Senza interruzioni torna la sezione iniziale che conclude il movimento senza ulteriori sbalzi d’umore.
Di seguito si apre un breve episodio, Allegretto non troppo, che funge da elemento di raccordo tra il secondo ed il terzo movimento di questo Concerto. Pochi interventi, di tipo rapsodico, quasi improvvisativo, ed una piccola fanfara delle trombe e dei fiati dà inizio al finale, Allegro molto vivace. Torna il Mendelssohn dei toni capricciosi e pittoreschi, dell’Elfenromantik, di un romanticismo magico di elfi e di fate, quello del Sogno shakespeariano come della Sinfonia Italiana. E’ il luogo del virtuosismo, mai eccessivo e sempre nel segno di una forte collaborazione tra solista e compagine orchestrale. Davanti ad una scrittura così brillante non c’è bisogno di cadenze solistiche, sostituite da un breve passaggio di trilli che porta ad una Coda ancora più accesa che conclude su toni festosi una composizione che subito divenne la più classica tra i concerti romantici per violino.
La storia della produzione sinfonica di Mendelssohn, limitata alle Sinfonie e quindi a quella che era considerata la forma più elevata di creazione musicale nell’era post-beethoveniana, occupa uno spazio che va dal 1824, anno in cui compose la Sinfonia n.1, al 1842, in cui creò la “Scozzese”. Nel 1824 Mendelssohn aveva quindici anni, ma nonostante ciò non era inesperto nell’arte della composizione, anche elevata, poiché aveva già al suo attivo ben 12 Sinfonie per soli archi, composte tra il 1821 ed il 1823. Sul frontespizio dell’autografo della Sinfonia stasera in programma si legge “Sinfonia XIII”, a testimonianza del fatto che lo stesso compositore non vedeva uno iato tra le due produzioni, così come invece è avvertito oggi. Nondimeno, in termini sia strutturali che estetici, le differenze esistono ed è difficile considerare la Prima Sinfonia come un’opera ancora giovanile. Innanzitutto cambiano i valori estetici di riferimento: Mendelssohn fu sottoposto ad un’educazione musicale molto rigida e fondata su basi solide quanto antiche. L’insegnamento di Zelter, il suo principale maestro, seguiva le tradizioni della Germania del Nord nell’istruzione musicale, tradizioni che derivavano da J.F. Kirnberger, F.W. Marpurg e, in ultima analisi, dal loro maestro J.S. Bach. Zelter è oggi principalmente noto per essere stato il consigliere più influente di Goethe in campo musicale, e se il poeta mostrò sempre un certo disinteresse per la musica (in favore del testo, ovviamente) ed un gusto quantomeno conservatore, la causa è in massima parte riconducibile a Zelter. Quest’ultimo, pur essendo stato anche il maestro di Loewe, Nicolai e Meyerbeer, tra gli altri, disprezzava Berlioz, Weber, Schubert, e ogni compositore anche recente come Beethoven; tutto il suo interesse e la sua ammirazione andavano per Haydn e C.Ph.E. Bach, e dello stesso Mozart non riusciva a seguire proprio tutta l’opera. Mendelssohn ricevette così quella che era sostanzialmente un’educazione musicale settecentesca, e la straordinaria facilità (e alle volte il conservatorismo) della sua musica riflette questo tirocinio iniziale.
La Sinfonia n.1 tradisce un’impostazione generale di tipo classico, ma in fondo in maniera non molto dissimile dalle altre (ad eccezione, forse, della “Scozzese”). Ciò che è nuovo ed inedito è la temperie romantica che occhieggia qua e là dalla partitura, un romanticismo più riferibile a Walter Scott che a Schumann, una matrice estetica che può comprendere tanto l’Elfenromantik quanto certi aspetti “oscuri” e tragici di Mozart o di Beethoven. La storia della sinfonia successiva a Beethoven è “circumpolare” (Dahlhaus), ovvero i compositori che vi si sono cimentati hanno proposto ciascuno una possibilità di uscita dai problemi che le singole sinfonie di Beethoven avevano aperto. Nel caso di Mendelssohn questo è vero solo in parte: è difficile decidere quale sinfonia sia più vicina alle scelte estetiche di Mendelssohn, forse proprio perché, a differenza di ogni altro compositore sinfonico della prima metà dell’Ottocento, egli scelse di non confrontarsi col passato e di cercare nuove vie pur partendo da basi classiche e fortemente conservatrici.
La Sinfonia si apre con un Allegro molto piuttosto esteso, anche se di andamento rapido. Non vi è introduzione: la scena presenta subito, sotto il segno di un deciso forte dell’intera orchestra, il primo tema, affidato ai due gruppi violini in unisono. E’ un tema assertivo, deciso e suddiviso in tre semifrasi: la prima e la seconda basate sull’inciso fondamentale presentato su due altezze diverse, la terza invece, omoritmica di tutta l’orchestra, dotata di un’evidente forza propulsiva verso una ripresentazione del materiale principale. La cornice strutturale è quella della forma-sonata e, come da tradizione, al primo tema ne succede un secondo, ad esso contrapposto dialetticamente, e non meno importante. Il secondo tema è in piano e il suo disegno melodico è suddiviso in ordine tra i primi violini, il primo oboe, il primo flauto (una costante ascesa verso la regione acuta dello spettro sonoro), per tornare al primi violini. E’ un tema tanto cantabile quanto non lo era il primo, prettamente strumentale, e si presenta su un elegante sfondo di accompagnamento composto da i secondo violini, note lunghe di armonia delle viole, e rintocchi sul tempo forte di violoncelli e bassi. Il cammino verso lo sviluppo, la parte centrale della forma-sonata, procede su una complessiva riproposizione degli incisi dei temi fondamentali e sarà proprio un tema secondario a condurre il discorso musicale dello sviluppo. Si tratta di uno spunto tematico, riducibile ad una scala discendente in genere affidata ai fiati, il quale, insieme al primo tema in ogni suo dettaglio, è il protagonista dello sviluppo. La ripresa si apre, come da manuale, sul primo tema, al quale fanno seguito tutti gli altri secondo l’ordine espresso nell’esposizione. Il primo movimento si conclude su una Coda informata dal primo tema e dalle armonie che esso esprime.
L’Andante è basato su una sola melodia principale, esposta in apertura dai primi violini su uno sfondo degli altri archi. E’ un tema di struttura regolare, esteso su otto misure e dal carattere placido, pastorale, di stampo beethoveniano. Esso informa l’intero secondo movimento e, pur presentadosi più volte nella sua forma originale, viene sottoposto a variazioni che comunque non ne intaccano il sapore originale. Nel complesso l’atmosfera rimane su toni sereni, mancano scarti emozionali di grande portata, e questo ci permette di gustare ancora più finemente le numerose nuances su cui si esprime il melodizzare di Mendelssohn, un gusto per la linea semplice ma mai scontata o, peggio, ripetitiva.
Con il Menuetto il quadro cambia completamente aspetto ed è il ritmo a tornare in primo piano. Un andamento rapido, Allegro molto, unito ad un’incertezza metrica ben studiata, fanno di questo episodio della Sinfonia un momento particolare. E’ difficile non pensare allo Scherzo della Quinta di Beethoven ma anche alla Sinfonia n.40 di Mozart: permane il senso della danza originale, ma nella sua natura più fisica, così come ci ricordano i bassi scandendo il tempo. Il resto muta, ed in primo luogo l’ambientazione, che è lontanissima sia dalle atmosfere del movimento precedente, sia da ogni leggerezza elfica che Mendelssohn saprà rappresentare in molte sue composizioni (vedi fra tutte le musiche di scena per il “Sogno di una notte di mezza estate”). Il Trio che è inserito al centro di questo movimento è in forte contrasto con il suo contenitore: esso presenta una melodia molto semplice (clarinetti, poi flauti), ma nel complesso vera protagonista ne è l’armonia, espressa da arpeggi degli archi che non sono da considerare meri accompagnamenti. Tanto ritmo vi era nel Minuetto, quanto esso è assente dal Trio. Mendelssohn non fu mai del tutto convinto di questo movimento e in diverse occasioni, a Londra come a Monaco, lo sostituì con una sua strumentazione dello Scherzo dell’Ottetto per archi op.20 composto l’anno successivo della Sinfonia, il 1825. Questa sua insoddisfazione perdurò anche dopo la pubblicazione della partitura, quando già la Sinfonia era entrata in repertorio ed era stata oggetto di molte esecuzioni.
Il brano che conclude la Sinfonia è un Allegro con fuoco di grande virtuosismo orchestrale e la sua scrittura è di un’eleganza e perizia davvero sorprendenti se messe in relazione alla giovane età del compositore. La struttura è ancora quella della forma-sonata, trattata però in maniera più libera e la grande varietà degli episodi che la compongono tradisce una intenzione di rondò piuttosto evidente. La somiglianza con il finale della Sinfonia n.40 di Mozart diventa più esplicita, ma la conduzione del discorso musicale complessivo è molto diversa. Siamo di fronte ad una costruzione assai complessa, composta da molti elementi interrelazionati ma anche di carattere molto diverso. Le tecniche compositive che Mendelssohn adotta sono svariate e tra di esse spicca quella del fugato, anche se in senso diverso dai fugati presenti nelle sue Sinfonie giovanili per archi. Qui l’intento è nettamente musicale, nell’ottica di rendere ancora più concitato e “stretto” l’avvicendarsi delle idee musicali, in un’architettura complessiva dominata ancora una volta dal ritmo, in particolare nella sua applicazione più evidente di velocità. Una Coda conclusiva in tempo più rapido pone fine positivamente e trionfalmente ad un movimento e ad una Sinfonia che meriterebbero più attenzione nella programmazione delle stagioni sinfoniche.
Renaud Capuçon Nato a Chambéry nel 1976, è stato ammesso a 14 anni al Conservatoire National Supérieur de Musique di Parigi dove ha studiato con Gérard Poulet e Veda Reynolds. Si è perfezionato con Thomas Brandis a Berlino e, successivamente, con Isaac Stern. Nel 1992 ha vinto il Primo Premio per la musica da camera, nel 1993 il Primo Premio di violino al CNSM di Parigi e nel 1995 gli è stato assegnato il Premio della Kunstakademie di Berlino. Invitato da Claudio Abbado nel 1997, ha continuato per tre estati l’esperienza di primo violino della Gustav Mahler Jugendorchester e ciò gli ha permesso di approfondire la sua educazione musicale con Pierre Boulez, Seiji Ozawa, Daniel Barenboim, Franz Welser-Möst. E’ stato premiato “Rising Star 2000” e “New Talent of the year 2000” (Victoires de la Musique). Come solista ha suonato con prestigiose formazioni: Deutsche Symphonie-Orchester Berlin, Komischer-Oper Berlin, NDR Sinfonieorchester, WDR Sinfonie Orchester Köln, Symphonique de Montréal, Jerusalem Symphony, le Orchestre di Bordeaux, Lille, Lyon, Monte-Carlo, Toulouse, Orchestre Philharmonique de Radio France, Orchestre National de France, Orchestre de Paris, Ensemble Orchestral de Paris, Gustav Mahler Jugendorchester, Royal Copenhagen Orchestra, Orchestra della Radio Svedese, Sinfonia Varsavia, Chamber Orchestra of Europe, City of Birmingham Symphony, Orchestra del Maggio Fiorentino, Orchestra Filarmonica della Scala di Milano, Orchestra di Santa Cecilia di Roma, Tokyo Philharmonic, NHK Symphony, Orchestre da Camera di Losanna e Zurigo. Ha collaborato con famosi direttori quali Christian Arming, Semyon Bychkov, Myung-Whun Chung, Charles Dutoit, Christoph Eschenbach, Ivan Fischer, Hans Graf, Daniel Harding, Gunther Herbig, Armin Jordan, Philippe Jordan, Emmanuel Krivine, Marc Minkowski, John Nelson, David Robertson, Michael Schønwandt, Leif Segerstram, Wolfgang Sawallisch.Nel novembre 2002 ha debuttato con i Berliner Philharmoniker diretti da Bernard Haitink. Ha partecipato ai Festival di Berlino, Lockenhaus, Gerusalemme, Stavanger, Lucerne, Verbier, Lugano, Davos, Aix-en-Provence, Auvers/Oise, Berlioz, Colmar, Côte Basque, Menton, Fontevraud, Sceaux, Saint-Denis, Strasbourg, Sully-sur-Loire, Fêtes Musicales en Touraine, ha fondato il suo festival a Chambéry. Suona uno Stradivari del 1721, appartenuto a Fritz Kreisler.