Le date
Programma di sala:
a cura di Mariateresa Dellaborra
Concerto di Natale
Tschaikovsky: Polacca da Eugenio Oneghin
Offenbach: Gaîté parisienne (Rev.: Rosenthal – Editore: Mario Bois – Agente per l’Italia: Edizioni Curci)
J.Strauss: Voci di primavera
F. Lehar: Oro e argento
F. von Suppè: Ouverture da Cavalleria leggera
J. Strauss: Trisch – Trasch Polka
Ch. Gounod: Valzer da Faust
J. Strauss: Sangue viennese
In linea con la più rigorosa tradizione del ballo viennese, il programma allinea una serie variegata di forme musicali destinate alla danza, alcune nate specificamente con lo scopo di accompagnare i passi di ballerini debuttanti e non, altre desunte da differenti repertori (segnatamente il melodramma), ma con l’intento di riprodurre in toto le caratteristiche peculiari delle prime. In quest’ultimo ambito va collocata la Polacca estrapolata dall’opera Eugenio Oneghin sottotitolata non a caso scene liriche e composta da Pëtr Il’ič Čajkovskij nel 1879. In apertura del primo quadro del terzo atto, risuona, preceduta da squilli di due trombe, un’incisiva melodia cui segue un motivo più cantabile e lezioso. La zona centrale della danza si stacca, secondo consuetudine, dalla prima per carattere e organico. I passaggi tematici di rilievo sono infatti affidati ai legni soli (dapprima compattamente flauti, oboi e clarinetti, poi fagotti soli), mentre gli archi creano sottili arabeschi e i corni contrassegnano il tempo. Con la ripresa della prima parte, si ripristina l’iniziale clima volitivo e deciso che all’interno del dramma provoca un felice diversivo, esattamente come avevano prodotto nell’atto secondo, nella scena del ballo, mazurka e valzer (primo quadro). Sebbene Eugenio Oneghin sia stato composto in un periodo molto travagliato della vita del musicista (un matrimonio affrettato e fallito rapidamente) sintetizza il cambiamento che Čajkovskij intendeva imprimere all’opera russa immettendovi aspetti del grand opéra francese soprattutto dopo i mutamenti introdotti dal Faust di Gounod; avvertiva l’esigenza di trasporre nella musica russa un genere leggero nella forma, intimo nel carattere, lirico, non tralasciando la tragedia. Il romanzo di Puškin, un classico della letteratura nazionale, come gli aveva suggerito l’amica Elizaveta Lavrovskaja, era perfetto per operare questa trasformazione. Desiderio di cambiamento a parte, vi si ritrovano i tratti più felici della scrittura musicale del compositore, l’istintività passionale e nel contempo la cura per il cesello formale nonché la rara sensibilità timbrica che indaga le possibilità espressive dei singoli strumenti, in particolare dei fiati, ricavandone suoni e impasti originali, raffinatissimi e inconfondibili.
Jacques Offenbach considerato a ragione il padre dell’operetta, iniziò la carriera come violoncellista nell’orchestra dell’Opéra comique di Parigi, città in cui si era trasferito all’età di quattordici anni dalla natia Colonia. Verso la metà del secolo invece la sua notorietà cominciò a legarsi alle stagioni musicali allestite in uno specifico teatro di sua proprietà in cui erano programmate quasi esclusivamente operette. La forma divenne rapidamente popolare in quanto riprendeva modelli e strutture dell’opéra comique, ma nel contempo adottava toni grotteschi e satirici, sviluppando argomenti dissacratori rispetto a tematiche d’attualità con lo scoperto intento di divertire e di creare una spontanea evasione. Da un punto di vista musicale il divertimento era assicurato mediante il ricorso a temi popolari e il loro inserimento in contesti non congruenti (si pensi ad esempio in Orphée aux enfers al cancan affidato agli dei o ne La bella Hélène alla frase «un vile séducteur» intonata su un’aria di valzer melodiosa o al grandioso insieme costruito intorno alla banale frase «l’homme à la pomme»). Anche la varietà ritmica, l’impostazione armonica spesso su successioni modulanti prevedibili, ma concluse in modo inconsueto o ancora l’impiego molto vario del linguaggio spesso snaturato attraverso un’accentuazione stravagante o la scomposizione delle parole accrescono l’effetto parodistico. L’orchestrazione infine contribuisce ad enfatizzare il piacere dell’ascolto: l’uso sapiente degli strumenti, in particolare dei fiati, impiegati per creare travolgenti crescendo, rimarca con gusto la varietà delle situazioni.
All’interno del ricco catalogo compositivo, che annovera più di un centinaio di operette, trovano collocazione anche vaudevilles, musiche di scena e balletti. Tra questi ultimi Gaîté parisienne risulta un pot-pourri di celebri brani desunti dalle operette più applaudite (Mesdames de la Halle, Orphée aux enfers, La vie parisienne, La belle Hélène, La Périchole, Les contes d’Hoffmann) arrangiati nel 1938, dopo un lungo lavorio, da Manuel Rosenthal. Il travaglio che la partitura subì durante la sua composizione si protrasse anche al momento dell’allestimento del balletto affidato a Léonide Massine. La prima esecuzione, avvallata e applaudita da Igor Stravinskij, chiamato a valutare la riuscita del florilegio, fu diretta in forma di balletto da Efrem Kurtz al Théâtre de Monte Carlo con Massine stesso in un ruolo principale; in seguito la pagina trovò fortuna e fu eseguita anche in forma da concerto.
Nato da una celebre famiglia di musicisti che per quasi un secolo ha dominato le scene musicali viennesi, Johann Strauss jr deve la fama soprattutto ai valzer, alcuni dei quali ancora oggi celeberrimi: per questo motivo è universalmente riconosciuto come “re del valzer”. La travolgente carriera direttoriale e l’instancabile attività compositiva lo imposero al pubblico d’Europa, Russia e America, riservandogli ammirazione e stima di critici e colleghi. Da Eduard Hanslick (il più importante critico musicale viennese) che lo definì: «Il miglior compositore di valzer contemporaneo» a Rimskij-Korsakov e a Johannes Brahms, che lo ebbe caro amico; da Richard Wagner, che vide in lui «la mente più musicale d’Europa», a Berlioz, a Verdi e a Liszt, con cui ebbe occasione di esibirsi. La sua fama si protrasse per lungo tempo tanto che Richard Strauss dichiarava di essersi ispirato a lui quando aveva composto il suo Cavaliere della rosa. A nulla valsero dunque le presenze in Vienna di Offenbach o la comparsa di Léhar: nei templi sacri della musica, come la sala dorata del Musikverein, dove ebbe accoglienza privilegiata, risuonavano sempre le partiture di Johann Strauss jr.
Dal debutto nel 1844, alle prime composizioni dedicate alla gioventù viennese o alle minoranze nazionali dell’impero austriaco, sino ai grandiosi eventi americani o ai concerti in Italia, Strauss in un cinquantennio seppe venire incontro alle esigenze degli spettatori. Il critico della Gazzetta musicale di Milano, in occasione del concerto al Teatro della Scala e del successivo al Teatro Dal Verme nel maggio del 1874, rimarcò con parole illuminanti il connubio indissolubile tra la figura di direttore e di compositore: «L’orchestra Strauss è l’incarnazione delle danze di Strauss, dal ritmo saltellante, dalle sospensioni e dagli allargamenti che seducono. Il direttore, un ometto bruno, vivace, irrequieto, ma entro le linee matematiche della gravità tedesca, comunica ai suoi dipendenti il sussulto del corpo, il battere dei piedi impazienti, il crollar delle spalle, del capo; quel dimenio della persona è come la punteggiatura del valzer e del galopp, i professori d’orchestra non hanno altro da fare che leggere con precisione. […] Strauss nei motivi melanconici si abbandona al languore carezzevole, che farebbe perdere il passo a due terzi dei ballerini di un veglione ma che riesce sommamente espressivo e si presta a felicissimi contrasti. Aggiungo che l’unico concerto alla Scala ebbe un compagno al Dal Verme con identico successo morale e finanziario. Durante l’esecuzione di un potpourri si udì un motivo: La donna è mobile ed il pubblico si levò in piedi a batter le mani ed a gridare. Pareva una vanità nazionale di pessimo gusto e qualcuno già protestava, ma Strauss, il quale capì subito la vera ragione, fe’ ripetere più volte le poche battute del Rigoletto. La chiave di quell’entusiasmo era la presenza in teatro di Verdi, al cui si volle fare un’ovazione.»
Voci di primavera (Frühlingsstimmen) op. 410 fu composto tra il 1882 e il 1883 originariamente per voce sola su testo di Richard Genée che aveva già scritto per il compositore Una notte a Venezia (Eine nacht in Venedig). Il valzer fu eseguito per la prima volta nel marzo del 1883 in un concerto di beneficenza per la Fondazione degli indigenti dell’impero voluta dall’imperatore Francesco Giuseppe nel quale si esibì anche Franz Liszt che Strauss conosceva già molto bene e al quale, nel gennaio del 1856, aveva dedicato il suo valzer Abschieds-Rufe op. 179.
Successivamente il valzer venne arrangiato dall’autore stesso in versione solamente orchestrale e fu eseguito in questa forma, oggi celeberrima, da Eduard Strauss durante uno dei suoi concerti al Musikverein nel 1883.
Trisch – Trasch op. 365, è una polka veloce che l’autore arrangiò con i motivi della sua terza operetta Il pipistrello (Die Fledermaus). La prima esecuzione pubblica della danza fu al concerto dei Volksgarten di Vienna nel settembre 1874. Il titolo deriva dal tema principale del secondo atto (duetto dell’orologio fra Rosalinde e Eisenstein) e da altri motivi presenti nelle arie dell’operetta: Kein verzeih’n! Der Heisenstein (atto terzo), Wie fliehen schnelldie Stunden fort! (atto secondo) e l’aria di Adele del terzo atto Spiel ich die unschuld vom lande.
Sangue viennese (Wiener Blut) op. 354, è ancora un valzer ideato in occasione dei festeggiamenti nuziali per Gisella d’Asburgo-Lorena, figlia maggiore dell’imperatore, e Leopoldo di Baviera.
Tra le varie iniziative, il personale del Wiener Hof-Operntheater (Teatro dell’opera reale di Vienna) organizzò un ballo d’opera di corte (i cui proventi sarebbero confluiti nelle pensioni dei membri del teatro) che si svolse nell’aprile del 1873 nella sala dorata del Musikverein.
L’orchestra Strauss, diretta dallo stesso Johann, riscosse un incondizionato successo stando alle recensioni coeve delle gazzette locali. Il Freemden-Blatt osservò: «Dopo una breve esibizione dei Wiener Philarmoniker, diretti da Johann Herbeck, fu la volta di Johann Strauss che una volta salito sul podio, ha diretto il suo ultimo valzer Wiener blut. Noi non crediamo di esagerare con la nostra lode, se eleggiamo questo lavoro tra i migliori del nostro amato re del valzer. Questo pezzo di danza è una vera e propria collezione di brani viennesi, pieno di melodie e ritmi elettrizzanti.» Il critico del Neues Wiener Tagblatt descrisse il pezzo come: «sicuramente uno dei migliori valzer che Johann Strauss ha scritto negli ultimi anni. In questo valzer, alle volte sfacciato, a volte sentimentale, scorre fresco, libero e rosso il sangue viennese!»
Insieme a Offenbach e a Strauss jr. Franz (Ferenc) Léhar occupa un posto di tutto rilievo nella storia dell’operetta. Rispetto ai due autori presenta tuttavia caratteristiche proprie: quanto Offenbach fu costante, rischiando persino di diventare ripetitivo, nell’invenzione melodica, tanto Léhar fu fantasioso; quanto Strauss intese il valzer come specchio della spensierata vita aristocratica viennese del tempo, tanto Léhar lo considerò vicino al mondo borghese fin de siècle, insinuandogli morbidezze e sinuosità del tutto nuove. Al pari dei colleghi si interessò in via privilegiata, ancorché non esclusiva, all’operetta, alla quale impresse un’evoluzione parallela a quella del teatro d’opera. Suo tratto caratteristico infatti fu l’eclettismo che gli permise di fondere in un tutto organico ideali stilistici molto diversi tra loro provenienti ora dal mondo colto (si pensi a Debussy, Mahler, ma anche a Puccini e a Richard Strauss) ora dal patrimonio popolare ceco e tedesco. In un momento in cui il divario tra musica colta e musica di consumo si stava facendo sempre più marcato, Léhar rivelò il desiderio di non essere considerato semplice autore di intrattenimento e per questo riservò una cura particolare all’orchestrazione; portò l’organico strumentale a dimensioni inconsuete; inserì procedimenti contrappuntistici complessi per scopi anche drammatici; ravvivò le forme con andamenti melodici fluenti e abbondanti. Tali tratti sono evidenti in un’opera della giovinezza come Oro e argento, valzer op. 79 composto per il gran ballo mascherato, il cui tema era proprio “oro e argento”, organizzato nel 1900 alla corte di Vienna dalla principessa di Metternich. Il valzer fu molto apprezzato e il suo autore divenne subito famoso in tutto il mondo, attirando su di sé l’attenzione degli editori musicali e dei gestori di teatri. Dal 1902 poté dare le dimissioni dall’esercito di Budapest, nel quale era subentrato al padre, e dedicarsi unicamente alla composizione musicale, ottenendo un’entusiastica quanto definitiva affermazione con Die lustige Witwe (La vedova allegra).
Franz von Suppé, nome d’arte di Francesco Ezechiele Ermenegildo Cavaliere di Suppé-Demelli, di origine dalmata (sua città d’origine è Spalato), compì la sua formazione in Italia dove si trattenne sino al 1835, venendo a diretto contatto con Rossini, Donizetti e il giovane Verdi. Si trasferì quindi a Vienna dove completò gli studi presso la Gesellschaft der Musikfreunde. A seguito del travolgente successo di Offenbach a Parigi, anche Suppé, che dall’arrivo in Austria aveva germanizzato il suo nome, decise di dedicarsi all’operetta e, con la rappresentazione di Das Pensionat, diede inizio al fortunato genere viennese, che nei decenni successivi sarebbe stato ripreso con enorme successo da diversi compositori, fra i quali Johann Strauss jr. e Franz Léhar. Nonostante l’elevato numero di opere di questo genere, che in Vienna si diffuse e affermò grazie a lui, la fama del compositore è oggi legata alle ouvertures, la più celebre delle quali è indubbiamente Cavalleria leggera (Leichte Kavallerie) il cui galoppo finale risuona spesso, oltre che nelle sale da concerto, in film e cartoni animati. I tratti caratteristici della sua musica vennero così sintetizzati da un critico contemporaneo: belle melodie, ricche di tenere idee e di delicate sfumature; chiara ed efficace orchestrazione; condotta armonica piena di sorprese; influssi italiani commisti a temi popolari rimaneggiati in modo semplice; elegante compostezza unita a slancio.
Faust, dramma lirico in cinque atti, probabilmente rappresenta il punto di equilibrio fra la tecnica di Charles Gounod e le trasformazioni che il genere operistico, ormai entrato in crisi, richiedeva. Esso rifletteva un mutamento e si offriva come forma intermedia fra i due tipi di opera codificati – grand opéra e opéra comique – che dominavano ancora la gerarchia teatrale di Parigi, ma che avevano cessato in gran parte di soddisfare il gusto del pubblico borghese. Dopo una serie di rielaborazioni, Faust andò in scena al Théâtre lyrique di Parigi nel 1859 ma ottenne una tiepida accoglienza e una serie di giudizi negativi: chi vi aveva rilevato l’adeguamento ai «cattivi maestri» tedeschi – quali Liszt, Schumann e Mendelsshon – e chi, come Wagner, aveva affermato «di non aver mai ascoltato un lavoro così goffo, disgustoso, nauseante, volgare e venalmente affettato». Soltanto tre anni dopo fu ripreso con successo e ancora rielaborato nel 1869 quando vi fu inserito un nuovo ballo. Solo allora pubblico e critica unanimemente parlarono di «capolavoro», di «miniera di bellezze che si rivelano ascolto dopo ascolto all’orecchio dell’intenditore», di «una tavolozza di colori e di caratteri degna di un grande pittore» e soltanto allora, con l’approdo al Théâtre de l’Opéra, Gounod poté dire di aver completato la sua pagina più famosa anche se probabilmente non la migliore. Una composizione che lo aveva accompagnato sin dal viaggio di studi in Italia nel 1839 senza abbandonarlo un solo istante, come scrisse egli stesso nei suoi Mémoires: «lo portavo sempre con me e abbozzavo qua e là qualche motivo per servirmene il giorno in cui mi fossi deciso a scrivere 1’opera». In effetti la partitura rivela un impegno creativo non comune e qualità davvero rare: la piena padronanza dell’orchestrazione e della strumentazione, la precisione per le polifonie e per il contrappunto, la fusione perfetta di stili disparati provenienti da ambienti diversi – il mondo liturgico (determinante l’incontro con Mendelssohn), quello dei salotti, il teatro popolare, quello colto; insomma un linguaggio nuovo, inconsueto, complesso, difficile da comprendere di primo acchito. L’importanza di questa scrittura trova riscontro nell’influenza da essa esercitata sulla musica francese di fine Ottocento tanto che Faust appartiene a pieno titolo alla tradizione operistica ufficiale e di essa rappresenta, prima di Carmen, un momento fondamentale.
Biglietteria
Abbonamenti e bilgietti in vendita presso:
Biglietteria Ticket One – Teatro Dal Verme
Via San Giovanni sul Muro, 2 – Milano
Tel. 02 87905
Orari d’apertura
Dal martedì al venerdì dalle ore 10 alle ore 18
Sabato e domenica dalle ore 10 alle ore 13
Vendita Online: www.ticketone.it
Il Cast
Direttore: Massimiliano Caldi
Orchestra: I Pomeriggi Musicali