Le date
Note di Sala:
a cura di Edgar Vallorta
F. CHOPIN – CONCERTO PER PIANOFORTE N.1 OP. 11
Il giovane Chopin (Varsavia, 1810 – Parigi, 1849: queste le due città che incarnarono il destino terreno del compositore), non appena terminato il Conservatorio, sviluppò il suo talento espressivo e la tecnica come autodidatta. Particolare apparentemente secondario, ma che invece è interessante se valutato nell’ottica che il compositore sentiva l’urgenza di auto-crearsi un repertorio “confezionato su misura”.
Forte di questo bagaglio-a-mano, il ragazzo iniziò nel 1829 una ben mirata carriera concertistica, sfoggiata sui palcoscenici di mezza Europa: Vienna in primis, poi Parigi. Inizialmente senza una grancassa di consensi, ma in seguito sostenuta da un conforto via via più vivo. E’ anche (e soprattutto) per questo motivo che nacquero i due Concerti per pianoforte e orchestra: opere che Chopin compose – giustamente o meno – con l’intenzione di “conquistare il grande pubblico internazionale”.
Facendo un passo avanti: la sua particolare tecnica pianistica – frutto di un mix di virtuosismi tecnici ma soprattutto di avventurosi registri, di timbri inediti, di impalpabili sfumature – non era certo adatta alle grandi sale, ai gusti correnti, un po’ più facili, del grande pubblico. (Anche se un intenditore geniale come Schumann – intenditor di poche parole – si inchinò a Chopin dopo aver ascoltato l’esecuzione delle Variazioni sul tema Là ci darem la mano: “Giù il cappello, signori! Ecco finalmente un genio!”)
Dopo l’ambivalente parentesi di concertista, Chopin preferì infatti dedicarsi all’insegnamento, alla composizione, alle audizioni private in salotti privati: pochissimi – dopo quella data – i viaggi all’estero, rarissimi i concerti pubblici. Una breve tournée in Inghilterra nel 1848; poi – a causa della sua malferma salute – il compositore abdicò dalla sua carriera concertistica rifugiandosi nel guscio di Parigi, ove si spense nel ’49).
Venendo ai Concerti per pianoforte (informazione da sottolineare prima di ogni altro commento: l’Op.11 in realtà è il secondo Concerto ad essere stato composto, mentre l’Op 21 è il primo, in sequenza cronologica), Chopin comprese – e lo ammise – che “suonare con l’orchestra era indispensabile per affermarsi”; o, comunque, per far concorrenza ai virtuosi di allora, tipi Kalkbrenner, Moscheles, Hummel. Non è un caso che il Concerto Op.11 sia stato dedicato proprio a Friedrich Kalkbrenner, virtuoso di gran fama e – per certi aspetti – “modello” per Chopin.
Una considerazione che si impone per entrambi i Concerti: grande popolarità fra il pubblico (allora e ancor oggi), più debole il consenso dei critici. Le riserve le conosciamo a memoria: fragile architettura generale, orchestrazione “ingenua” (per alcuni critici addirittura “troppo rumorosa” e “ingombrante”), squilibrio tra solista e orchestra, soprattutto nei movimenti centrali. Contrariamente a Listz, che riuscì a forgiare un’opulenta parte orchestrale a sostegno del pianoforte, l’orchestrazione di Chopin resta sempre ai margini del quaderno; quasi dovesse rimanere una replica, fedele e ubbidiente, agli interventi “senza cornice” del solista. Alcuni critici evidenziano, nei due Concerti, una matrice stilistica di “stampo mozartiano”: questo per la ricerca di un equilibrato accostamento dei vari incisi ritmici e per la continuità logico-espressiva che innerva i due Concerti. Miracoloso, comunque, che le melodie di impronta vocale (a volte addirittura “estenuanti”) e le tante fioriture ispirate al belcanto italiano, sappiano tradursi – nella tastiera ormai perfezionata del pianoforte – in insospettabili, sconosciute suggestioni timbriche.
Tra i due, quello più ossequiente ad un lirismo spianato è proprio l’Op.11, opera che ascoltiamo questa sera. Nel movimento d’apertura, Allegro maestoso, dopo l’introduzione orchestrale, il pianoforte prende la parola riproponendo, con ben altra grinta, il tema principale: tema che il compositore sottopone a numerose trasmutazioni virtuosistiche introducendo (senza avarizia; anzi, con grande generosità) sublimi melodie, inanellate l’una all’altra da rapinosi capricci virtuosistici appositamente concepiti per sfoggiare la bravura dell’autore.
Il secondo movimento, una Romanza, – da tutti i critici ritenuto il momento più intenso dell’opera – si presenta come un delicatissimo Notturno (nei testi accreditati i commenti si sprecano: atmosfere “sognanti”, “affettuose”, “rarefatte”, “madreperlacee”), brano basato su una melodia cantabile che si srotola come un nastro, fatta eccezione per una sezione centrale più agitata. Gli archi accompagnano con leggerezza omeopatica il soave canto del pianoforte (in particolare nel secondo tema), come a sottolineare pudicamente la melodia, come a non disturbare il procedere languido/rapsodico del protagonista. Per alcuni preziosissimi minuti il canto struggente del pianoforte vagabonda attraverso emisferi melodici e tonali molto differenti fra loro, creando innovative risonanze.
Sublime l’episodio in cui il solista dialoga col fagotto. Sublime.
Colpi d’ala di fosforescente bravura, flusso ininterrotto di fuochi d’artificio virtuosistici, ritmi incalzanti (che non soffocano, comunque, il fiorire di spunti melodici, altissimi) sono la carta di credito del Rondò vivace che chiude il Concerto. In forma tradizionale ma convincente. Si nota – perfino al primo ascolto – il tatuaggio della tradizione polacca, di quella (allora popolare) danza chiamata Krakowiak: con questo tributo alla sua terra, il compositore prende congedo dalla letteratura per pianoforte e orchestra.
Il Concerto Op.11 fu composto nel 1830; venne eseguito per la prima volta l’11 ottobre dello stesso anno a Varsavia, nell’ultimo concerto che Chopin tenne nella sua patria, prima di raggomitolarsi nella placenta di Vienna e poi di Stoccarda; infine di Parigi, dolce riposante sepolcro.
Sempre curioso e intrigante il commento di Robert Schumann, acuto critico del compositore polacco. Da una sua recensione del 1836: “Le opere di Chopin sono cannoni sepolti sotto i fiori. E’ nel destino della sua terra che risiede la spiegazione dei suoi pregi e, anche, dei suoi difetti. Soprattutto nelle prime opere vi è un marchio innegabile di spiccato nazionalismo”.
J. BRAHMS – SINFONIA N.2 OP.73
Quattro le Sinfonie di Brahms (Op.68, Op.73, Op.90, Op.98): quattro realtà musicali, quattro avventure diverse. Un contrasto sconcertante, innanzitutto, fra la Prima e la Seconda: se nessun’opera ebbe un compimento lungo e sofferto come la Prima, si rimane sorpresi dinanzi alla nascita di questo secondo lavoro sinfonico. Nessuna difficoltà apparente, nessuna sofferenza d’autore, nessun ripensamento.
Riprendendo vecchi appunti, Brahms compose questa Sinfonia durante la villeggiatura del 1877 a Pörtschach, villaggio affacciato su un amato lago in Carinzia. Evidentemente Brahms aveva trovato nel paesaggio bucolico delle acque chete di Wörth un alleato che si confaceva alla sua concentrazione: ripeté infatti questa benedetta esperienza nelle due estati successive, regalando altri capolavori quali il Concerto per violino Op.77 e la Sonata Op.78. Raccontava con insolito buonumore del suo insediamento nel castello di Pörtschach, dove aveva dovuto “accontentarsi di due stanzette della portineria in quanto il pianoforte non erano riusciti a farlo passare per le scale!”
L’autore rifinì la Sinfonia in autunno, a Lichtental, quel sobborgo di Baden-Baden ove ritornava sempre volentieri, non foss’altro che per riabbracciare l’amica-artista-compagna-complice Clara Schumann. La quale appuntò nel suo diario: “Johannes è arrivato stasera a casa mia, per festeggiare il mio compleanno (peccato che sia arrivato quattro giorni in ritardo!!!) Ho poi capito in ritardo che il mio amato voleva principalmente farmi ascoltare il primo tempo della sua nuova Sinfonia. (…) Questo lavoro avrà sicuramente più successo della Prima: ha un ché di amabile e al tempo stesso di genialmente elaborato”. Come sempre Clara ha ragione, anche questa volta: nel sottolineare l’ottimismo luminoso che emana dalla Sinfonia, che è ben lontano dal clima sofferto e cupo della Prima.
Doveroso un cenno alle tante definizioni che la Sinfonia ha raccolto fin dagli inizi. Grazie al successo tributato dai Viennesi, la Sinfonia venne definita “viennese”: definizione ambigua, fortunatamente destinata a scomparire. Secondo altri commentatori si tratta di una Sinfonia dal carattere più “pastorale” che viennese, avvertendovi semmai le suggestioni della montagna e dell’amato lago: di qui la denominazione di “Sinfonia pastorale” con evidente rimando alla Sesta di Beethoven. Altri l’hanno definita “mozartiana” per la sua luminosa trasparenza; altri ancora l’hanno inquadrata – adottando l’odiosa formula del ping-pong – come “l’ultima Sinfonia di Schubert”.
Divertente il (dissacrante) commento che l’autore stesso appose alla sua Sinfonia: “Provate per un mese a martellarvi i timpani [gentiluomo, n.d.r.] con Berlioz , Listz e Wagner: ebbene a quel punto la gaiezza di questa Sinfonia vi sembrerà un miracolo!”.
E’, questa, una vera verità: siamo infatti dinanzi ad un’opera – nonostante certe piccole schegge di sapiente ambiguità – distesa, facile, accattivante, di immediata seduzione timbrica: tutti e quattro i movimenti sono infatti indicativi di questa nuova scelta poetica. Nell’Allegro ma non troppo è emblematico il primo tema, di grande liricità, di un “romanticismo quasi meridionale”: tema affidato ai corni, le cui sonorità pastorali bene esprimono la vocazione dell’opera. La conclusione raccoglie le sue forze in un’oasi di pace estrema.
Il secondo movimento, un Adagio, sembra votarsi ad una sfera perfetta di malinconica rassegnazione; ma anche qui, alla fine, la visione si rasserena con il riapparire del primo tema, affidato ai fiati su un misurato scandire dei timpani: un momento di esoterica sospensione prima della comparsa del terzo movimento.
Segue un Allegretto grazioso, che predilige una dimensione di squisita eleganza, astratto omaggio a una danza leggera, senza affanni, senza esuberanze, semplice e candida come un Ländler popolare. In perfetta sintonia con i precedenti movimenti anche il Finale, che rifugge anch’esso da contrasti e che rafforza l’atmosfera di sereno ottimismo. La ripresa è mozartianamente concisa; mentre la Coda si concede uno scoppio di fanfara tratto dal secondo tema, il cui “giubilo dionisiaco” (definizione dell’Ottocento) lascia un’impronta nell’ascoltatore.
Una Sinfonia che conferma, accanto alla vocazione “mozartiana”, l’equilibrio classico, un sereno DNA, la natura distaccata dell’autore.
Prima esecuzione a Vienna, 30 dicembre 1877, con successo contrastato. Le solite difficoltà, più aspre ancora, invece a Lipsia, dove la Sinfonia fu presentata al Gewandhaus il 10 gennaio 1878.
Curiosità relative alla presentazione in pubblico. La reazione del pubblico fu analoga a quella, durissima, del critico viennese Dorffel. All’entrata di Brahms in sala si erano levate grandi acclamazioni, come a sottolineare l’entusiasmo e la fiducia con cui era atteso il compositore. Il biografo Kalbeck racconta però che, dopo l’Allegro iniziale, l’accoglienza era stata “solamente cordiale”; mentre alla conclusione gli applausi si erano ulteriormente rarefatti – sguardi inquieti e delusi, dappertutto. Al termine due chiamate fiacche, malgrado la claque dei fedelissimi.
Pur cercando di dissimulare l’amarezza, Brahms confida infatti all’editore Simrock: “Mi ha colto di sorpresa il fiasco di Lipsia, ma penso che la colpa non sia del mio lavoro ma della miopia del pubblico. Se Lei crede potrei anche cambiare il primo tempo. Mi dica Lei se se dovrà essere riscritto in maggiore o in minore”. Il primo tempo, per fortuna, non fu riscritto; e nel corso del 1878 si assistette al progressivo affermarsi dell’opera (grazie soprattutto al terzo movimento che, a detta dell’autore stesso, “aveva il bis in tasca”). Il successo si ripeté a Brema e a Breslavia; buone notizie pervennero anche da Munster e da Dresda (Franz Muller sul podio).
Centrato il commento di Castiglioni: “La seconda Sinfonia rimane un’opera perfetta. E’ uno dei rari esempi in cui la poetica di Brahms collima con una certa qual clarté: si tratta di una Sinfonia che, sorprendentemente, fa pensare ad Haydn, alla Seconda di Schubert, alle Sinfonie di Mendelssohn. Anche se la spiritualità vera di Brahms rimane contemplativa, del tutto estranea al gioco di un equilibrio illuministico”.
Biglietteria
La sera del Giovedì di questo concerto è inserita nella speciale rassegna: LA MUSICA È GIOVANE.
Clicca qui per ulteriori dettagli.
Abbonamenti e bilgietti in vendita presso:
Biglietteria Ticket One – Teatro Dal Verme
Via San Giovanni sul Muro, 2 – Milano
Tel. 02 87905
Orari d’apertura
Dal martedì al venerdì dalle ore 10 alle ore 18
Sabato e domenica dalle ore 10 alle ore 13
Vendita Online: www.ticketone.it
Il Cast
Direttore: Antonello Manacorda
Pianoforte: Nicholas Angelich
Orchestra: I Pomeriggi Musicali