Una coppia di giovanissimi interpreti, assai apprezzati dalla platea, Alessandro Bonato sul podio e la pianista Leonora Armellini, fresca finalista del Concorso Chopin, l’11 e 13 maggio con la Sinfonia da camera op. 110a di Šostakovič e il Primo Concerto di Beethoven.
Programma
Dmitrij Šostakovič (1906 – 1975)
Sinfonia da camera op. 110a
Largo
Allegro molto
Allegretto
Largo
Largo
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore, op. 15
Allegro con brio
Largo
Rondò. Allegro scherzando
Direttore Alessandro Bonato
Pianoforte Leonora Armellini
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
Sguardi sull’esistenza
di Raffaele Mellace
Le due belle partiture in programma provengono da fasi contrapposte della vicenda esistenziale dei loro autori. Pur evitando la tentazione di cadere nel biografismo con l’istituire paralleli avventati tra vita e opera, si fatica a sfuggire alla tentazione di cogliervi molto della percezione di sé e delle proprie prospettive che i due musicisti provavano al momento in cui misero mano alle due partiture. A proposito della prima, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič scriveva a Isaac Glikman: «Ho composto un quartetto inutile e ideologicamente insostenibile. Ho pensato che se morissi all’improvviso, difficilmente qualcuno scriverebbe e dedicherebbe qualcosa alla mia memoria. Allora ho deciso di fare io stesso qualcosa del genere. Bisognerebbe scrivervi sul frontespizio: “In memoria del compositore di questo quartetto”». Sì, perché il lavoro oggi in programma nacque, tra il 12 e il 14 luglio 1960 durante un viaggio nella Dresda ancora tragicamente segnata dalle rovine della guerra, come Quartetto d’archi, il n. 8 dell’autore (lo si ascoltò per la prima volta a Leningrado nell’ottobre di quell’anno), per diventare, nella trascrizione per orchestra d’archi realizzata ancora in vita dell’Autore da Rudolf Barshai, una sinfonia da camera da subito popolarissima. La natura squisitamente intima e autobiografica della composizione, che giunge al termine della sofferta, drammatica stagione staliniana, culminante nell’iscrizione obtorto collo del compositore al Partito, è dichiarata immediatamente dalla presenza del motto “DSCH” corrispondente alle iniziali dell’Autore, ovvero Re – Mi bemolle – Do – Si bequadro, secondo la denominazione tedesca delle lettere musicali. Lo espone in apertura il violoncello, imitato in canone dagli altri strumenti, e ritornerà in modo pervasivo. Ma la composizione si nutre anche di altre reminiscenze di lavori Šostakovič (le Sinfonie nn. 1, 5, 7, 8, 9 e 10, il Trio con pianoforte n. 2, il Concerto per violoncello n. 1, l’opera Lady Macbeth del Distretto di Mtsensk) e altrui, una canzone dei tempi della Rivoluzione bolscevica, la Marcia funebre di Sigfrido dal Crepuscolo degli dèi, una citazione dalla Sinfonia “Patetica” di Čajkovskij, in una sorta di summa sonora dell’universo affettivo di Šostakovič. La commozione e la simultanea soddisfazione per la perfezione formale conseguita trasmessi dalla lettera citata apparterranno probabilmente anche all’ascoltatore, cui il tumulto emotivo ora evocato perviene nello splendido nitore di una macchina musicale affascinante. La composizione, la cui dedica ufficiale «Alla memoria delle vittime del fascismo e della guerra» il compositore avrebbe contestato anni dopo secondo le memorie postume pubblicate da Solomon Volkov, articolata in cinque movimenti senza soluzione di continuità, propone un Largo, cupo e severo, da cui sorge a sorpresa una melodia rigeneratrice, degna di quella con cui Wagner aveva chiuso la Tetralogia; l’avvincente, ossessivo e demoniaco Allegro molto, un moto perpetuo perfettamente intonato alla tradizione russa, selvaggio e rigoroso al tempo stesso, impreziosito dalla citazione icastica di un motivo ebraico dal Trio con pianoforte n. 2; un danzante Allegretto carico di ironia, la distesa malinconica e tetra del Largo, scosso da una gestualità minacciosa ma capace anche del lirismo pudico e commovente del canto del violoncello solo nel registro acuto, citazione di un’aria della Lady Macbeth del Distretto di Mtsensk; un ultimo Largo finale.
Pubblicato prima del Concerto in Si bemolle maggiore, e per questo noto come Primo concerto benché successivo nella stesura, il Concerto in Do maggiore ci riporta alla stagione in cui il giovane Beethoven, ancora nel pieno possesso delle facoltà uditive, si esibiva come virtuoso del pianoforte. Scritto per proprio uso, e per questo dato alla stampa solo nel marzo 1801 quando uscì contemporaneamente per i tipi di tre editori in altrettante città, il lavoro conobbe una genesi complessa, coerente con l’impiego personale cui era destinato (sembra tra l’altro che Beethoven non mettesse per iscritto la parte del pianoforte se non nell’imminenza della stampa, facendo affidamento in concerto soltanto su memoria e appunti stenografici). Iniziato nel 1795, e forse già eseguito (in una prima versione?) in un’accademia viennese del 29 marzo 1795, in occasione della prima esibizione pubblica nella città d’adozione, era sicuramente terminato nell’ottobre 1798, quando Beethoven lo propose con ogni probabilità a Praga durante una tournée mitteleuropea. Il 2 aprile 1800 lo si ascoltò, sempre interprete dell’Autore, a Vienna in una nuova versione, cui risale probabilmente il Finale, consegnata l’anno dopo alla stampa, mentre le cadenze non furono fissate sulla carta prima del 1809. Con questo titolo il giovane virtuoso s’inserisce nel filone, di moda negli anni delle Guerre rivoluzionarie, del concerto militare, denunciato sin dall’apertura dal marziale ritmo puntato (l’Allegro con brio è a tempo di marcia), che l’accomuna all’attacco del Concerto n. 16 in Re maggiore K. 451 di Mozart, che abbiamo ascoltato lo scorso 4 e 6 maggio. La monumentalità della partitura è testimoniata dall’organico imponente e dalle oltre 100 battute dell’introduzione orchestrale. Se annunciano il Beethoven maturo sottigliezza del discorso armonico ed energia del Rondo finale di tradizione haydniana, la grazia che trapela dagli interventi solistici dell’Allegro e dilaga nel lirismo idilliaco del Largo in La bemolle maggiore, cui contribuisce con raffinato gusto timbrico un selezionato gruppo di legni capitanato dal clarinetto, completa una partitura che tramanda la memoria del brillante improvvisatore e rappresenta degnamente gli esiti raggiunti dalla prima stagione beethoveniana, chiusasi proprio con il 1801.