Direttore: Beatrice Venezi, Clarinetto: Dimitri Ashkenazy - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 25 gennaio 2024
Ore: 10:00*
giovedì 25 gennaio 2024
Ore: 20:00
sabato 27 gennaio 2024
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Wolfgang Amadeus Mozart (1756 – 1791)
Concerto per clarinetto e orchestra in La maggiore k622

Maurice Ravel (1875 – 1937)
Le Tombeau de Couperin

Sergej Prokof’ev (1891 – 1953)
Sinfonia n. 1 in Re maggiore op. 25 “Classica”

direttore Beatrice Venezi
clarinetto
 Dimitri Ashkenazy
Orchestra I Pomeriggi Musicali

 

Lo splendore luminoso della forma
Il concerto inanella tre capolavori, altrettante vette nella produzione di tre protagonisti della scena musicale europea, concepite ai due estremi di quello che lo storico Eric Hobsbawm battezzò il “lungo Ottocento”, tra la Rivoluzione francese e la Grande Guerra. In tutti e tre questi lavori la musica si mostra in grado di rischiarare la nostra umanità attraverso la pura bellezza della forma, complici anche le tonalità luminose ed estroverse di La e Re maggiore.

Biglietteria

Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (fino a 26 anni, oltre i 60 anni, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita

Note di sala

Il concerto odierno inanella tre capolavori, altrettante vette nella produzione di tre protagonisti della scena musicale europea, concepite ai due estremi di quello che lo storico Eric Hobsbawm battezzò il “lungo Ottocento”, tra la Rivoluzione francese e la Grande Guerra. In tutti e tre questi lavori, la musica si mostra in grado di rischiarare la nostra umanità attraverso la pura bellezza della forma, complici anche le tonalità luminose ed estroverse di La e Re maggiore, questo chiarore illumina perfino il paesaggio più tetro, cioè l’orrore della guerra, e la dialettica con il linguaggio musicale del Settecento che per Mozart è lingua madre, per Ravel e Prokof’ev una fonte d’ispirazione in grado di mobilitare le migliori energie creative. La bellezza pura del Concerto in La maggiore per clarinetto, ultima partitura strumentale che Mozart terminò a meno di due mesi dalla morte (fu completata infatti poco dopo il 7 ottobre 1791), rappresenta senz’altro, insieme al coevo Ave verum k 618 e forse ancor più del Requiem k 626, un lascito della più toccante poesia sonora. Il concerto venne composto a Vienna per il clarinettista Anton Stadler, già dedicatario del Trio “dei birilli” k 498, del Quintetto per clarinetto e archi k 581, e destinatario delle parti di clarinetto e corno di bassetto della coeva Clemenza di Tito, da poco allestita a Praga per l’incoronazione di Leopoldo II. Proprio a Praga, dove Stadler era in tournée , il concerto venne inviato, in un pendolo Vienna-Praga che coinvolge anche altri lavori mozartiani. Conferma la centralità di Stadler, amico, confratello massone (e debitore!) di Mozart, nella genesi del concerto anche la circostanza che per il primo movimento il compositore rielaborò l’abbozzo d’un concerto per corno di bassetto che aveva messo in cantiere e poi abbandonato un paio di anni prima proprio per Stadler. Ne risultò una partitura che contempera l’inedito sfruttamento di tutte le potenzialità espressive (anche quelle più crepuscolari) di uno strumento all’epoca ancora recente e privo di repertorio, e una vocazione squisitamente cameristico- intimistica, lontana da ogni tentazione di spettacolarità. Partitura radiosa, con tre tempi su tre incardinati in tonalità maggiori – benché il corteggiamento del modo minore non manchi, specie nei tempi estremi – condivide con il Flauto magico, il cui debutto, il 30 settembre 1791, si sovrappone alla composizione del Concerto, il medesimo anelito alla felicità. L’ Adagio, in particolare, è associato nella memoria di un paio di generazioni al film Out of Africa (“La mia Africa”), il classico del 1985 diretto da Sydney Pollack sulla base del romanzo omonimo di Karen Blixen, vincitore di 7 Oscar e, in Italia, di 2 David di Donatello e un Nastro d’argento. La pagina mozartiana vi è chiamata a interpretare la storia d’amore, intensa e infelice, vissuta da Meryl Streep e Robert Redford sullo sfondo della bellezza mozzafiato di una natura incontaminata, con la musica di Mozart chiamata in causa a esprimere il fascino esercitato dall’Africa sugli occidentali nel Novecento.

All’altro capo del “lungo Ottocento” esibisce sin dal titolo un’ispirazione funebre il Tombeau de Couperin, l’importante progetto coltivato da Maurice Ravel durante la Grande Guerra. Composto originariamente per il pianoforte tra il 1914 e il 1917, anno aperto dalla morte della madre, il Tombeau è dedicato alla memoria di sei amici caduti al fronte. La vedova di uno di questi, Marguerite Long, interpreterà la “prima” della versione originaria. Espunti due numeri squisitamente pianistici, la raccolta venne orchestrata nel 1919. In puro stile neoclassico, il Tombeau esprime in termini esemplari l’estetica raveliana della rivisitazione dell’antico co – niugando forme di danza barocca, lessico melodico-ritmico del Settecento francese, anacronismi nella strumentazione (con il ricorso frequente al corno inglese), tonalità tradizionale e predilezione tutta moderna per l’armonia di settime e none cara a Debussy. Difficile scegliere in tanta delicatezza poetica, dal disegno limpido ed essenziale, in cui la grazia prevale sulla malinconia: forse il tourbillon di terzine che mette subito a dura prova l’oboe nel Prélude, la cullante eleganza sorniona della Forlane, la melopea pastorale dei legni, guidata sempre dall’oboe, nel Menuet color pastello, il brillante, vitalistico meccanismo del Rigaudon, del quale vi è più d’un presagio nelle Valses nobles et sentimentales e in cui s’intrufola, ancora con la voce penetrante dell’oboe, il timbro d’un Settecento bucolico.
Nel 1918, un anno prima che Ravel realizzasse la geniale orchestrazione del suo Tombeau de Couperin, il giovane Sergej Prokof’ev lasciava la Russia in fiamme portando con sé a New York la partitura della Sinfonia “Classica” in Re maggiore, scritta nei due anni precedenti e presentata a San Pietroburgo, allora Pietrogrado, il 21 aprile 1918. Sorprendentemente, la composizione, saldamente e assai precocemente ispirata all’orientamento estetico neoclassico, nulla tradisce dei drammatici eventi rivoluzionari. Si configura piuttosto come una sinfonia di Haydn al quadrato: si badi, non una parodia, cioè un falso, bensì la restituzione del sereno orizzonte espressivo haydniano rivissuto dal venticinquenne russo con un candore che produce il miracolo d’una perfetta immedesimazione negli ideali estetici del classicismo viennese, in termini non tanto dissimili dall’operazione compiuta da Ravel con il Tombeau. Il miracolo di idee tradotte nella nettezza adamantina di oggetti musicali dal carattere pregnante. Ed ecco allora che la musica crepita sotto la pelle nel frizzante Allegro d’apertura, naturalmente in forma sonata; non si scompone nel passo elegante e misurato d’un Larghetto in cui convivono misura olimpica e umorismo discreto; imbocca la strada d’una danza dal profilo incon – fondibile nella sapida Gavotte. Non troppo allegro (prima delle quattro pagine a veder la luce nel 1916), preferita al regolamentare minuetto e reimpiegata vent’anni dopo nel balletto Romeo e Giulietta; si congeda infine dagli ascoltatori con la frenesia inarrestabile del bel Finale. Molto vivace.

Raffaele Mellace