Direttore: Dawid Runtz, corno: Radovan Vlatković Orchestra Filarmonica di Zagabria - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 16 gennaio 2025
Ore: 20:00
sabato 18 gennaio 2025
Ore: 17:00

Jakov Gotovac (1895 – 1982)
Symphonic Dance

Reinhold Glière (1875 – 1956)
Concerto per corno e orchestra in Si bemolle maggiore op. 91

Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840 – 1893)
Sinfonia n. 6 in Si minore op. 74 “Patetica”

direttore Dawid Runtz
corno Radovan Vlatković
Orchestra Filarmonica di Zagabria

Biglietteria

Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (under30, over60, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita

Note di sala

L’energia, la sensibilità, l’eco stessa della musica popolare sono le vie attraverso cui tre personalità ben distinte di artisti compongono nel concerto odierno il ritratto d’una sfaccettata anima slava dal fascino irresistibile. Apre il concerto una danza sinfonica, forse la partitura più popolare, adottata da diversi coreografi, del compositore dalmata Jakov Gotovac, classe 1895, formatosi tra la città natale, Spalato, e Vienna, e destinato a carriera direttoriale, segnatamente all’Opera di Zagabria, la cui orchestra ha guidato per oltre un trentennio (1923-1957). Gotovac è stato una figura centrale nella cultura musicale croata, cui ha offerto la cifra accessibi le e popolare d’un nazionalismo musicale di idioma tardoromantico. La Danza (Ruota o Kolo) sinfonica op. 12 in programma, prima fortunata fatica sinfonica del compositore, del 1926, si rifà al kolo, danza di gruppo dei paesi dell’ex Jugoslavia, spesso accompagnata dalla tamburizza, liuto a manico lungo dalle corde metalliche d’origine orientale, tipico della Croazia. Gli estimatori della Vedova allegra di Lehár ricorderanno strumento e danza: il primo, in numero di tre, è fondamentale nell’Introduzione dell’Atto II, mentre la danza, citata esplicitamente dal personaggio di Danilo, con la battuta in francese in partitura: «Un kolo, la danse de notre patrie!», risuona nell’Introduzione e nel successivo n. 10 dell’Atto II. Caratterizzano la partitura, organizzata come un pot-pourri di diversi kolo, energia, verve ritmica, tensione crescente, vivace colorismo orchestrale, carattere pseudopopolare dell’invenzione melodica, e complessivamente quella cordiale immediatezza espressiva di certa musica tra le due guerre su entrambe le sponde dell’Atlantico (si pensi ad Aaron Copland, ad esempio).
Puntando decisamente a Nord, approdiamo, per restarvi, in Russia con il Concerto per corno di Reinhold (Rejngol’d Moricevič) Glière, nato nel 1875 a Kiev, dove avrebbe insegnato, come anche a Mosca; qui fu allievo di figure di spicco tra cui Taneev e Arenskij. Di origine belghe, direttore d’orchestra, figura in vista nell’Unione Sovietica a cavallo della Seconda guerra mondiale (morì nel 1956, tre anni dopo Stalin), anche Glière s’interessò alla musica folklorica, al canto popolare ucraino e alla cultura dell’Asia centrale. Erede del sinfonismo russo ottocentesco, esibisce una scrittura tardoromantica tonale dal melodismo espressivo e suadente di presa immediata. Ne è un esempio paradigmatico il maturo concerto in programma, insediatosi da almeno quarant’anni nel repertorio dei cornisti: scritto nel 1950 per Valery Polekh, che si era distinto nel balletto Il cavaliere di bronzo di Glière, è concepito nel formato classico del concerto virtuosistico, sembra ispirato dal Concerto per violino di Čajkovskij, con ampio spazio per il solista ma anche dall’accurata orchestrazione. Se l’energico, euforico Allegro d’apertura, non privo di squilli marziali, ospita già un episodio lirico (Tranquillo), grande delicatezza esibisce sin dall’esordio affidato ai legni il lirico Andante, di schietto afflato romantico. Chiude il concerto il frenetico spirito di danza popolare dell’Allegro vivace conclusivo, preceduto da un’introduzione breve e solenne in Moderato.
Corona il concerto l’estremo capolavoro di Čajkovskij, la Sinfonia del cui soprannome di “Patetica” si assunse la paternità il fratello del compositore, Modest. L’ultimo anno di vita di Čajkovskij, sospeso tra riconoscimenti lusinghieri e il mistero tuttora insoluto della fine prematura, fu dominato dall’ossessione di «una sinfonia a programma, ma con un programma che rimarrà segreto per tutti». Richiesto d’un requiem in memoria del poeta Aleksej Apuchtin, il compositore dichiarò che «la mia ultima sinfonia […] è impregnata di sentimenti molto vicini a quelli cui è ispirato il requiem […] temo di rischiare di ripetermi intraprendendo un’opera vicina allo spirito della precedente». La “Patetica” andrà dunque intesa come un requiem personale, testamento sinfonico di profonda serietà esistenziale. Čajkovskij compose tra febbraio e agosto 1893, e diresse il 28 ottobre 1893 a San Pietroburgo, quella che, dichiarò, «penso sia la mia opera migliore». Il sentimento del tragico è indagato dall’artista con lucida disperazione e originalità formale. Risolse l’annoso problema del Finale collocando in ultima posizione un movimento lento (dopo di lui lo farà anche Mahler) su cui si spegne una costruzione sinfonica che per i primi tre tempi è una sorta di concerto senza solista. La “voce del destino” non è più affidata a un motto stentoreo, bensì al colore del suono che apre e chiude la sinfonia, incorniciata da due Adagi.
In esordio il fagotto recita lugubre la sua parte elementare, ad aprire un’introduzione mantenuta costantemente nel registro grave. Le viole attaccano allora l’Allegro non troppo, che si stempera in un secondo tema dolcissimo suonato dai violini con sordini, teneramente, molto cantabile, con espansione; riemergerà spettrale, da di stanze siderali, ancora al clarinetto, schiantato dall’attacco fragoroso dello Sviluppo, in cui gli ottoni citano, con scoperto significato simbolico, il requiem ortodosso, per concludere con una pagina spaventosa in cui sovrastano l’orchestra intera. L’Allegro con grazia è un valzer nel metro di 5/4, inconsueto ma tipico della musica popolare russa. La sezione contrastante introdotta dai violini cita la canzone estone Cara Maria. L’Allegro molto vivace è posseduto dalla frenesia d’un moto inarrestabile: vi trionfa il secondo tema a ritmo di marcia, esaltato dal crescendo generale. Lo straordinario Finale. Adagio lamentoso è aperto da un motto memorabile che s’adagia progressivamente verso il grave, tra sonorità sempre più evanescenti. Fondamentale un episodio in cui i violini intonano in pianissimo con tenerezza e devozione il tema principale, semplice scala discendente, radiosa, carica di speranza e insieme fragile. La costruzione sinfonica cresce sino a un culmine intollerabile di patetico e a una drammatica pausa generale. Il discorso si scarnifica e sfilaccia in un suono sordo, disperato da cui emerge un corale di ottoni. La magistrale pagina conclusiva, progressivo annullarsi in diminuendo nel silenzio, propone, quasi a epitaffio di uno dei più geniali strumentatori della storia, i timbri prediletti di clarinetti, fagotti, corni e archi gravi divisi. Violoncelli e contrabbassi restano soli a intonare il battito sempre più flebile d’un accordo di Si minore. Difficile immaginare un suono più sinistro e inquietante: sguardo diretto, disincantato, impavido alla morte.

Raffaele Mellace