SOLD OUT - Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 20 marzo 2025
Ore: 20:00
sabato 22 marzo 2025
Ore: 17:00

Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sinfonia n. 9 in Re minore op. 125

direttore Diego Fasolis
soprano Michela Antenucci
mezzosoprano Lucia Cirillo
tenore Charles Sy
basso Henryk Böhm
Coro della Radiotelevisione Svizzera
maestro del coro Martin Steffan
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Biglietteria

Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (under30, over60, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita

Note di sala

La Nona di Beethoven è senz’altro tra i titoli più emblematici dell’intera civiltà occidentale. Bastano a dimostrarlo due circostanze, estranee alla qualità estetica della partitura, che nell’arco dell’ultimo mezzo ne hanno sancito il valore simbolico universale. Da un lato l’adozione dell’Inno alla gioia che corona la Nona a inno ufficiale della Comunità (oggi dell’Unione) europea, dal 19 gennaio 1972; dall’altro la decisione presa otto anni dopo dal presidente della Sony Norio Ohga di stabilire la durata standard dei cd ai 74’ dell’incisione della Nona diretta da Wilhelm Furtwängler a Bayreuth nel 1951.
Cominciamo dall’inizio. Tra il 1822 e il 1824 Beethoven è impegnato nella composizione d’un lavoro che non si erge virtualmente isolato, come la coeva Missa solemnis, nel catalogo del compositore, ma rappresenta il precipitato di sollecitazioni provenienti da lontano e costituisce il coronamento della serie delle sinfonie, la più ambiziosa, e non soltanto per l’organico mobilitato, tra i suoi lavori. La composizione fu propiziata da una commissione risalente al 1817 della Philharmonic Society di Londra, che avrebbe voluto che Beethoven, come già Haydn, scrivesse e dirigesse due sinfonie durante un soggiorno londinese. La commissione rimase lettera morta, ma l’idea si riaffacciò nell’agenda del compositore nel 1822, quando Beethoven si rifece vivo presso il suo contatto sondando l’interesse per «una grande sinfonia». Passato quasi un decennio dal battesimo dell’Ottava (febbraio 1814), negli anni intercorsi il compositore non era rimasto indifferente al genere sinfonico più ambizioso, tanto da stilare nel 1818 il programma di due sinfonie che per alcuni aspetti prefigura la Nona: «Si potrebbe caratterizzare l’intera 2a Sinfonia facendo entrare le parti vocali nell’ultimo tempo […] Oppure l’Adagio sarà in un certo modo ripetuto nell’ultimo movimento, nel corso del quale le parti vocali entreranno poi gradatamente”. Completata nel febbraio 1824, la Nona vide la luce nel concerto monstre, come d’uso all’epoca, del 7 maggio 1824 al Teatro di Porta Carinzia, ritorno ufficiale di Beethoven sulla scena pubblica. Il concerto propose l’Ouverture La consacrazione della casa, composta nel 1822 per l’inaugurazione del nuovo teatro della Josefstadt, e tre sezioni della Missa solemnis, già ascoltata integralmente esattamente un mese prima a San Pietroburgo. Non si cita casualmente la Missa solemnis, e non solo perché il cantiere della messa fu parallelo a quello della sinfonia. Si tratta infatti di due opere in qualche modo gemelle, «come i pannelli di un dittico», per dirla con Alberto Basso, tanto il confronto con il sacro, maturato attraverso la meditazione sugli ammirati progetti sinfonico-corali degli oratori di Handel e di Haydn, si rivela esperienza fondamentale anche per il mondo creativo dell’estrema sinfonia beethoveniana. Persino l’ingenua melodia, oggi tra le più universalmente note, dell’Inno alla gioia tradisce più d’una somiglianza con un temino secondario dell’offertorio Misericordias Domini K222 (205a), composto dal giovane Mozart per la Corte di Monaco di Baviera nel 1775, dieci anni prima dell’ode di Schiller: una traccia ulteriore di quel confronto con il sacro così come con la storia della musica che rappresenta un elemento essenziale per l’ultimo Beethoven.
Monumentale nelle dimensioni, dalla concezione rigorosamente organica, la Nona presenta tanto caratteristiche associabili alla scrittura beethoveniana più tipica (lo Scherzo, che protrae ed esalta l’impeto bellicoso dell’omologo movimento della Settima), portata alle estreme conseguenze (si pensi al materiale tematico essenziale su cui si fonda il primo movimento, riconducibile a un’elementare, misteriosa sequenza di intervalli discendenti da cui il discorso stenta, ostentatamente, a prendere forma). Ma anche laddove tali caratteristiche richiamano procedimenti tipicamente beethoveniani, in realtà questi si rivelano ormai distanti dalla perentoria incisività dei lavori precedenti (l’Eroica, la Quinta), caratterizzati da un’invenzione tematica plastica e da processi di sviluppo drammatici. Al contempo, questa estrema sinfonia esibisce tratti dello stile tardo del compositore: si pensi all’Altrove metafisico cui allude la distesa infinita delle quasi 160 battute del Molto adagio e cantabile, contrapposto allo Scherzo e collocato eccezionalmente, con inedito risalto, in terza posizione, collocazione che diventerà la norma presso gli autori romantici due generazioni più tardi.
La sorpresa più sconcertante sta però nelle scelte irrituali del complesso Finale, vertice di sperimentalismo formale, che con le sue oltre 900 battute amplifica ulteriormente l’impostazione già grandiosa della sinfonia, sbilanciandola verso la conclusione (un’infrazione della norma della sinfonia classica, che aveva piuttosto il baricentro nel primo movimento, già perseguita, sebbene in termini meno clamorosi, nell’Eroica e nella Quinta). Citando i tempi precedenti, Beethoven ricapitola sinteticamente l’intera sinfonia, conferendole un inedito carattere ciclico; ammette nel genere strumentale per eccellenza solisti vocali e coro; delinea, dapprima attraverso il rifiuto/superamento dei temi dei tempi strumentali, poi attraverso sezioni vocali di diverso carattere (bellico, coreutico, estatico ecc.) il percorso epico, dall’evidente valenza morale, dell’ascesa dell’umanità verso l’ideale di fraternità universale, esaltato dall’illuminismo dell’ode Alla gioia di Schiller, intonata, parzialmente e riorganizzandone il testo, nella versione originaria del 1785, preferita alla revisione d’autore del 1803. La “voce” schilleriana emerge progressivamente dall’orchestra, sollecitata da un irrituale “recitativo” (così la partitura: «Secondo il carattere di un recitativo») di violoncelli e bassi. Paradossalmente, nell’ultima fase creativa beethoveniana, l’orchestra prende così a cantare: il massimo artefice dell’affermazione della musica strumentale sceglie nel suo ultimo, visionario capolavoro sinfonico di ricorrere al coronamento della voce per attingere a una nuova pienezza comunicativa.

Raffaele Mellace