Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sinfonia n. 6 in Fa maggiore op. 68 “Pastorale”
Wolfgang Amadeus Mozart (1756 – 1791)
Sinfonia n. 40 in Sol minore K550
direttore Diego Fasolis
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (under30, over60, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
Il programma del concerto odierno impagina due capolavori straordinari, contrapposti come il giorno e la notte. Pagine nate a vent’anni di distanza, opera di autori tra loro collegati che propongono sguardi sulla vita e sul mondo radicalmente differenti e complementari, a offrire un’esperienza meravigliosa della ricchezza del Classicismo viennese. Scritta nel 1808, simultaneamente alla Quinta, con cui condivise il debutto al Teatro An der Wien, la Sinfonia “Pastorale” ha notoriamente per tema il sentimento della Natura: tema carissimo a Beethoven, che già dal 1800 trascorreva regolarmente i mesi estivi nella campagna attorno a Vienna, poiché «nessuno può amare la campagna quanto io l’amo: infatti boschi, alberi e rocce producono davvero quell’eco che l’uomo desidera udire». Nel 1817 suggerirà a una corrispondente: «se le capitasse […] di vagare per gli appartati boschi di abeti [presso la cittadina termale di Baden, alle porte di Vienna], pensi che lì Beethoven ha spesso poetato, o come si usa dire, composto». La natura è per il compositore necessità del cuore, dialogo con un interlocutore in grado di rivelare l’io a se stesso, esperienza religiosa, utopia d’una serenità agognata. Tale resterà nella cultura romantica tedesca: mezzo secolo più tardi, il 21 giugno 1860, Clara Schumann invitava Brahms a progettare una sinfonia argomentando che «le persone come te carpiscono ovunque alla natura la loro bellezza e ne ricavano nutrimento per il loro spirito».
Nel suo capolavoro Beethoven si riallaccia alla tradizione del descrittivismo pittoresco della musica a programma settecentesca, culminante nel sublime degli oratori haydniani, tanto da prendere plausibilmente spunto da un precedente allora relativamente recente, la sinfonia Le portrait musical de la nature di Justin Heinrich Knecht, articolata in una serie di movimenti del tutto analoga a quella della “Pastorale” e pubblicata nel 1784/85 dall’editore Boßler di Speyer, lo stesso delle prime sonate beethoveniane. E tuttavia tale tradizione è superata d’un balzo con piena libertà espressiva, poiché la Natura viene proposta nella prospettiva del soggetto che l’assume nella propria vita interiore: «Più espressione del sentimento che pittura», è infatti l’avvertenza inequivocabile riportata in partitura. La memoria interiorizzata della vita nella Natura è condensata nel risveglio di gioiose sensazioni suggerito dalla prima frase dei violini su accompagnamento da musette pastorale degli archi gravi, e da tutto l’Allegro ma non troppo d’apertura, il primo degli eccezionalmente cinque tempi, tutti altrettanto corredati di titoli esplicativi. A tale luminosa, distesa felicità inventiva, brulicante di vita, idealizzazione del respiro della Natura (musica tanto «sciolta e libera da tensioni» quanto la Quinta era stata «concentrata e condensata», ha scritto Walter Riezler; «musica che sembra più ascoltare che affermare», nota Giorgio Pestelli) offrono una sorta di aureola timbrica i legni, in evidenza in tutta la studiatissima partitura. Si badi anche soltanto alla coda dell’Andante molto mosso, in cui flauto, oboe e clarinetto propongono l’incanto d’un dialogo idealizzato tra usignolo, quaglia e cucù, voci della natura trasfigurate in vita dello spirito. Un’ulteriore trasfigurazione conclude la sinfonia: quel canto di pastori che esprime, con la voce senza parole della musica assoluta, la gioia e la gratitudine suscitate nell’animo dalla quiete dopo la tempesta (il “Temporale”, ammirato da Berlioz: unica pagina in minore della partitura), quel momento in cui, scriverà vent’anni più tardi Giacomo Leopardi, pur lontano dall’estatica contemplazione beethoveniana della Natura, «ogni cor si rallegra».
Esattamente vent’anni prima, nella prodigiosa estate 1788, a tre anni dalla scomparsa precoce, Mozart mise la parola fine alla sua produzione sinfonica con un trittico formidabile: le Sinfonie in Mi bemolle K543, in Sol minore K550 e in Do maggiore “Jupiter” K551. Il 25 luglio, in particolare, ultimò il lavoro di mezzo, trenta minuti fra i più celebri della storia della musica occidentale. Già nel 1793 si giudicava questa sinfonia «una delle più belle di questo maestro»: titolo meritato per l’intensità espressiva, l’imprevedibilità armonica, il cromatismo, l’ambiguità del significato e pertanto della collocazione estetica in seno a un classicismo dalle insopprimibili tensioni preromantiche. Scritta probabilmente in vista della stagione concertistica dell’inverno seguente, quando peraltro non la si ascoltò, la sinfonia è prodotto di quel laboratorio viennese di idee ed esperienze umane e culturali che fruttò i capolavori della maturità mozartiana. Domina la partitura la cifra del tragico, una malinconia nera che impregna l’invenzione tematica sin dalla sua definizione, in patente contrasto con le sinfonie sorelle. Nella distratta abitudine all’ascolto della nostra società, il tema inaugurale della sinfonia è svilito a jingle da cellulare, con l’inevitabile conseguenza di annichilire la vibrante tensione tragica che abita quel motivo fascinoso: un inciso ossessivo preparato dall’irrituale attacco in piano delle viole divise e incardinato in un ritmo anapestico che comunica il disagio radicale di un’instabilità irrisolta, l’impossibilità di fermare il piede su un punto d’appoggio sicuro, un dinamismo affannoso, sospinto dall’urgenza d’un determinismo ineluttabile. Al primo movimento segue la grazia delicata del raccolto Andante in Mi bemolle maggiore, la cui scrittura canonica cita gli stilemi dello stile severo. Il breve ma fondamentale Minuetto ripristina la tensione tragica dell’esordio in un torvo Do minore, cancellando, nell’implacabile energia ritmica potenziata dal ricorso al contrappunto, ogni grazia cortigiana del minuetto settecentesco, al di là della parentesi offerta dal tono liederistico e popolare del Trio. Cupo e violento è il febbrile Allegro assai conclusivo, che ispirerà Beethoven per il terzo movimento di quella Quinta Sinfonia presentata nello stesso concerto in cui si ascoltò per la prima volta la “Pastorale”.
Raffaele Mellace