È considerato uno dei grandi violinisti di oggi, Julian Rachlin, che è protagonista assoluto degli appuntamenti del 23 e 25 marzo con il celebre Concerto n. 2 di Mendelssohn e la Sinfonia n. 7 di Beethoven.
Programma
Felix Mendelssohn – Bartholdy (1809 – 1847)
Concerto per violino e orchestra n. 2 in mi minore, op. 64
Allegro molto appassionato
Andante
Allegretto non troppo. Allegro molto vivace
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sinfonia n. 7 in la maggiore, op. 92
Poco sostenuto – Vivace
Allegretto
Presto
Allegro con brio
Direttore e violino Julian Rachlin
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
Urgenza romantica e rumore della Storia
di Raffaele Mellace
I due capolavori in programma scrutano con straordinaria perspicacia e restituiscono con meravigliosa forza inventiva alcune tra le dinamiche più profonde dell’esistenza umana: rispettivamente la vita interiore e il tumulto della Storia. Due miracoli di creatività, concepiti a trent’anni di distanza, si pongono in perfetta continuità nel solco di quella civiltà della musica occidentale che non conosce cesure tra classicismo e romanticismo. Non meno che prodigioso suonerà il celeberrimo Concerto per violino in mi minore di Felix Mendelssohn-Bartholdy, ultima composizione sinfonica che l’Autore completò, il 16 settembre 1844, destinandola a Ferdinand David, formidabile violinista dedicatario del Moto perpetuo op. 11 di Paganini, e fatta propria, ancora in vita di Mendelssohn, dall’ancor giovanissimo (appena quattordicenne) sodale di Brahms, Josef Joachim. In questo esito sommo del romanticismo mendelssohniano denunciano l’urgenza incoercibile d’un mondo interiore straripante e la costante, altissima tensione espressiva tre scelte peculiari: l’esposizione del tema principale dell’importante e maturo Allegro molto appassionato d’apertura, di cui si appropria immediatamente il solista bruciando qualsiasi introduzione orchestrale, come avveniva peraltro anche nei duc concerti per pianoforte mendelssohniani, il primo dei quali si è ascoltato gli scorsi 9 e 11 marzo; la collocazione della cadenza non in coda al I tempo, bensì al termine dello Sviluppo, a introdurre efficacemente la Ripresa; la concatenazione dei tre tempi, che fluiscono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, intolleranti di qualsiasi indugio. Il concerto assume così la fisionomia di un’arcata unica, un solo grande organismo dagli atteggiamenti diversi, sospeso tra il lirismo intimo e toccante dell’Andante in Do maggiore, in semplice forma ternaria (Liedform) caratterizzata da un’inquieta sezione centrale, e il brillante virtuosismo del finale, in cui sembrano prendere nuova vita le creature fantastiche del Sogno d’una notte di mezza estate, frequentate da Mendelssohn sin dalla sua prodigiosa adolescenza, e tra i contributi più memorabili dell’autore alla storia della musica. Non meno significativa la cura formale con cui il compositore ambisce a costruire un edificio di classica solidità: si consideri ad esempio il percorso tonale del III tempo (Mi – Si bemolle – Sol – Mi), che, capovolto in maggiore il mi minore d’impianto, inverte simmetricamente quello del I. Non stupirà l’accoglienza entusiastica ricevuta dal concerto sin dalla prima esecuzione assoluta, avvenuta al Gewandhaus di Lipsia il 13 marzo 1845 sotto la direzione del grande musicista danese Niels Wilhelm Gade, sostituto di Mendelssohn in assenza di quest’ultimo, che riprese il lavoro nell’ottobre successivo, fino alla consacrazione dell’edizione a stampa, salutata come l’apparizione del legittimo erede del concerto op. 61 di Beethoven – e predecessore, potremmo aggiungere, dei grandi concerti romantici di Čajkovskij e Brahms.
Ben altro immaginario risuona nella Settima sinfonia, appunto di Beethoven. Umiliata dall’occupazione francese e quindi costretta a un oneroso armistizio, Vienna, patria adottiva di Beethoven, offriva uno spettacolo che il 26 giugno 1809, dieci giorni prima della vittoria di Napoleone a Wagram, Beethoven commentava con queste parole: «Che devastazione e sconquasso attorno a me, nient’altro che tamburi, cannoni, afflizione umana d’ogni genere». Il furore delle armi e le drammatiche difficoltà dei tempi, lungi dal restare ai margini delle composizioni beethoveniane, vi si riversano imperiosamente e impregnano l’invenzione musicale influenzando in misura determinante la qualità della scrittura. Sarebbe impossibile concepire una partitura simile prescindendo dal contesto storico-culturale di un’Europa avviata a completare un secondo decennio di guerre, rivoluzionarie prima e napoleoniche poi: andranno ricondotte al rumore della Storia, meno indirettamente di quanto si potrebbe supporre, la spiccata propensione alla gestualità, le sonorità marziali, l’immagine sonora di un sublime che in quella stagione tanto inquieta non poteva se non assumere il tono d’uno stile eroico. Nacque in quel contesto la Settima sinfonia (si noti, all’avvio del Vivace che finalmente deflagra dopo l’ampia, divagante introduzione, il ruolo propulsivo del ritmo puntato): fragorosa musica di guerra, corroborata dall’ubiquo protagonismo dei fiati, in grado di trasformare il rumore della Storia in pura euforia dionisiaca. Non a caso Wagner lesse questa partitura audace, euforica ed energetica come l’apoteosi della danza: giudizio condivisibile per il ruolo principe che vi assume il ritmo, perfino nel tempo lento, un inconsueto, incantatorio Allegretto, ma che poco aiuta l’ascoltatore odierno, la cui attenzione andrà allertata lungo altri percorsi. Insomma, direbbe Figaro, «invece del fandango, / una marcia per il fango». Andranno infatti piuttosto apprezzati l’andamento da marcia funebre (intesa, come nell’Eroica, quale tributo sommesso alla memoria di un Grande) del severo Allegretto processionale in la minore (capovolgimento del luminoso La maggiore d’impianto), nobilitato dall’inserzione di una doppia fuga; la violenza espressiva dello Scherzo, completato da un doppio Trio dalla solennità degna del Campo di Marte; il carattere inequivocabilmente marziale del Finale. Non sembra casuale che la prima esecuzione della sinfonia, a Vienna, nel salone dell’Università, l’8 dicembre 1813, si accompagnasse a quella d’un altro lavoro beethoveniano minore che avrebbe dovuto rappresentare il cuore di quel concerto di beneficienza per soldati austriaci e bavaresi feriti: La vittoria di Wellington. Cinquanta giorni prima Napoleone era stato sconfitto a Lipsia, avvisaglia che un’epoca feroce si avviava a conclusione, non senza evidenti conseguenze perfino sul paesaggio sonoro del Continente, il cui immaginario, impregnato di gestualità e sonorità marziali, aveva assunto di necessità la cifra d’un sublime eroico.