Ancora pianoforte il 9 e l’11 marzo con due ritorni importanti, quello di George Pehlivanian e del pianista giovanissimo Antonio Alessandri impegnato nel Concerto n. 1 di Mendelssohn incastonato fra la Sinfonia del Barbiere di Siviglia di Rossini e la Serenata “Haffner” di Mozart.
Programma
Gioachino Rossini (1792 – 1868)
Il barbiere di Siviglia (Sinfonia)
Felix Mendelssohn – Bartholdy (1809 – 1847)
Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in sol minore, op. 25
Serenata. Andante
Allegro giocoso. Animato
Wolfgang Amadeus Mozart (1756 – 1791)
Serenata n. 7 in re maggiore “Haffner”, K250 (K248b)
Allegro maestoso
Andante
Minuetto I – Trio
Rondò. Allegro
Minuetto II galante – Trio
Andante
Minuetto III – Trio I – Trio II
Adagio. Allegro assai
Direttore George Pehlivanian
Pianoforte Antonio Alessandri
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
Il genio da giovane
di Raffaele Mellace
Caratterizza il programma odierno la precocità degli autori: le loro età all’epoca della composizione dei rispettivi lavori raggiungono sommate a stento 65 anni. Non ne aveva compiuti 24 Rossini al debutto del Barbiere, 22 ne aveva Mendelssohn quando terminò il suo concerto, appena 20 il Mozart della “Haffner”. La pagina più celebre, la Sinfonia del Barbiere di Siviglia, non nacque nemmeno per quell’opera, in “prima” a Roma nel febbraio 1816, ma, come altre pagine della partitura, le preesisteva. Proveniva da Elisabetta regina d’Inghilterra, Napoli, ottobre 1815, cui era approdata dall’Aureliano in Palmira, messo in scena al Teatro alla Scala il 26 dicembre 1813 dal compositore ventunenne. Anche a prescindere dalle necessità di tempo («il tempo e il denaro che mi accordava per comporre era sì omeopatico, che appena aveva io il tempo di leggere la cosiddetta poesia da musicare»), Rossini aveva ben d’onde a ricorrere all’autoimprestito per questa memorabile pagina bipartita, in cui un’introduzione lenta prepara una forma sonata senza sviluppo. La chiarezza perspicua della forma favorisce l’evidenza d’una gestualità pregnante dall’ispirazione personalissima, che il compositore declinerà in termini sempre diversi nelle sue ouverture operistiche. Si apprezzeranno il gesto solenne da lever de rideau, lo sfruttamento sistematico dei legni, la bellezza dell’invenzione melodica, l’incisività dei ritmi, gli sbalzi dinamici, la suprema sprezzatura del discorso, in cui accompagnamenti anodini sono avviati in un meccanismo a orologeria, nella paziente attesa di melodie dal corto respiro ma geniali (ai violini, all’oboe), funzionali a innescare il celebre crescendo. Insomma, un teatro in nuce in una manciata di minuti.
Se la pagina appena ascoltata proponeva un formato nuovo, con il Concerto per pianoforte in sol minore il ventiduenne Mendelssohn trovò semplicemente la soluzione al problema storico dell’identità del genere, diventato, nell’Europa biedermeier della Restaurazione, una vetrina del solista, rispetto al quale l’orchestra era retrocessa a una funzione servile o del tutto irrilevante, con cospicuo arretramento rispetto ai modelli classici di Mozart e Beethoven. Con questo lavoro avviato durante il soggiorno romano del 1830 ma scritto in realtà di getto a Monaco di Baviera nel settembre 1831, il giovane amburghese seppe mettere a frutto la duplice prerogativa, di fatto solo sua, di pianista di vaglia (allievo del grande Moscheles) e talentuoso direttore d’orchestra nell’invenzione di una formula che aprisse nuove vie. Tre le strade simultanee intraprese: il ristabilimento di un equilibrio paritario tra solista (che nulla perde del suo virtuosismo) e orchestra, la concezione del concerto come organismo unitario in cui i tre tempi si succedono, in una scrittura mirabilmente fluida, senza soluzione di continuità (alla chiarezza dell’articolazione provvedono le ineludibili fanfare degli ottoni che annunciano l’inizio del II e III tempo), infine la profonda coesione tematica, il carattere ciclico caro ai romantici, garantita dal riaffiorare nel III tempo di materiale del I. Soluzioni grazie alle quali Mendelssohn realizza, scrive Piero Rattalino, «il manifesto di una nuova poetica, che avrebbe dominato per una trentina d’anni». Si susseguono così il tumultuoso Molto allegro con fuoco, in cui solista e orchestra affermano sin dall’avvio la veemenza passionale del sol minore, con impeto travolgente che anticipa il Concerto per violino; la romanza senza parole dell’Andante, notturno effusivo in un cui il pianoforte svolge il suo eloquio convincente; il brillante finale dominato dallo slancio del tema à la Weber del Molto allegro e vivace, elegante, sornione e d’irresistibile energia. Accolto trionfalmente nell’esecuzione dell’autore alla prima monacense del 17 ottobre 1831, incluso nel proprio repertorio da Liszt che, al solito, lo suonò alla perfezione a prima vista sotto lo sguardo ammirato dell’autore, il concerto ha forse nelle parole di Moscheles la sua consacrazione più inoppugnabile: «Invenzione, forma, strumentazione, esecuzione: tutto mi ha perfettamente soddisfatto. Il pezzo sprizza genio».
Portare il genere affrontato a nuovi standard fu quanto fece il ventenne Mozart con la Serenata “Haffner” K. 250. L’occasione per innalzare l’ordinario intrattenimento degli ospiti dei banchetti della società ancien régime venne dalla commissione – così è intestata la partitura autografa – «Per lo Sposalitio del Sgr: Spath colla Sgra Elisabetta Haffner», ovvero le nozze della figlia di Sigmund Haffner, facoltoso mercante, già borgomastro di Salisburgo. Nella città natale di Mozart il lavoro venne proposto il 21 luglio 1776, la sera prima delle nozze, nel giardino della famiglia in Paris-Lodrongasse, a pochi passi dalla Chiesa di S. Maria di Loreto e dalla stessa casa dei Mozart. Singolarmente estesa (l’autore stesso la riprenderà più volte, almeno fino al 1780, in una versione ridotta), ricca d’invenzione e dalla costruzione sofisticata, questa Finalmusik si compone d’una partitura sinfonica al cui interno è incastonato un intero concerto (II, III e IV tempo), in cui spicca la voce solistica del violino. Allo strumento, da cui nella sua veste di Konzertmeister Wolfgang guidava l’orchestra del principe-vescovo di Salisburgo, era stata dedicata la serie notevole di ben cinque concerti, realizzata in meno d’un anno e terminata il 20 dicembre precedente. Sfilano così in un ideale banchetto musicale dalla durata monstre di poco meno di un’ora, pagine complesse e ambiziose come quelle poste ai due capi, entrambe arricchite da un’introduzione che accresce l’attesa del movimento principale; due andanti di squisito lirismo; ben tre minuetti diversamente connotati, che ospitano altrettanti trii contrastanti accuratamente scritti; un rondeau animato dal bizzarro meccanismo motorio che l’avvicina a un giocoso tambourin. Le nozze, insomma, tra solennità, lirismo e verve dal sorriso cordiale.