Padre Komitas (1869 – 1935)
Suite armena
Sergej Prokof’ev (1891 – 1953)
Concerto n. 2 per violino e orchestra op. 63
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sinfonia n. 7 in La maggiore op. 92
direttore George Pehlivanian
violino Stefan Milenkovich
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Vendita singoli biglietti
dal 9 luglio 2024
Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (under30, over60, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
Il titolo di queste note è preso in prestito da una dichiarazione di Sergej Prokof’ev, uno degli autori in programma. Il concetto ben si adatta infatti ai lavori proposti, gravidi di Storia, aperti a implicazioni che travalicano l’individuo, destinati alle folle. Di grande rilevanza collettiva è sicuramente la musica del padre Komitas (il nome, assunto all’ordinazione, richiama un compositore di inni del VII secolo), figura tragica e modernissima di monaco, assurto a simbolo dell’identità armena. Addottoratosi a Berlino nel 1895, Komitas fu attivissimo nella ricerca etnomusicologica, esercitata sul campo trascrivendo personalmente nei villaggi migliaia di melodie tradizionali armene, curde, persiane e turche, poi rivisitate in composizioni anche molto ambiziose. Il suo apostolato per la musica e la cultura armena culminò nel Congresso della Società internazionale di musicologia di Parigi nella primavera 1914, alla vigilia della Grande guerra, con relazioni e un concerto nella chiesa armena. Nel 1915, nelle prime fasi del genocidio perpetrato dai turchi, Komitas fu deportato, trauma da cui non si riprese più. Le pagine in programma danno conto da un lato del sapore esotico, evocativo, tra ritmi vivaci e seducenti indugi, della lingua musicale armena, altra (per peculiarità melodico-ritmiche e quella gestualità che evoca strumenti come il dhol e lo shvi) rispetto a grammatica e sintassi del sistema tonale; dall’altro testimoniano la qualità della scrittura di padre Komitas, di cui niente meno che Debussy, poco tenero con chiunque, inviava alla cognata cantante una raccolta di mélodies, raccomandandole di studiarle e interpretarle con cura.
In quella stessa Parigi che assistette all’apostolato per la cultura armena di padre Komitas, Sergej Prokof’ev scrisse il tema principale del primo movimento del Concerto per violino n. 2, lavoro di respiro davvero internazionale, a dimostrazione della “vita nomade” dell’autore a quei tempi: il secondo movimento fu infatti composto a Voronež, in Russia, l’orchestrazione fu ultimata a Baku, in Azerbaijan, e la “prima” avvenne a Madrid il 1° dicembre 1935, nell’anno in cui il povero padre Komitas si spegneva in un ospedale psichiatrico di Parigi. Intercettiamo Prokof’ev a una svolta esistenziale, la vigilia del rientro definitivo (1936) in Unione Sovietica dopo diciotto anni di peregrinazioni tra Stati Uniti ed Europa, inclusa la Parigi di Ravel e Debussy. L’ultima commissione occidentale del compositore russo nasce per il violinista francese Robert Soëtens, che con il collega Samuel Dushkin, dedicatario nel 1931 del Concerto per violino di Stravinskij, aveva interpretato la “prima” della Sonata per due violini di Prokof’ev. Concepito in origine anch’esso come sonata, il Concerto in Sol minore è un gioiello di poesia crepuscolare, caratterizzato da quel terso lirismo che costituisce lo splendido marchio di fabbrica dell’ispirazione di questo gigante del Novecento. Campeggia al cuore del concerto l’Andante assai, il cui bellissimo tema principale promana dolcezza ed eleganza in perfetta prossimità espressiva e spirituale con la musica del balletto Romeo e Giulietta composto da Prokof’ev quello stesso 1935. Musica che pare realizzare le idee espresse nel 1931 sulla missione del compositore: «È passato il tempo in cui la musica veniva creata per un manipolo di esteti. Oggi vaste folle popolari sono giunte faccia a faccia con la musica seria e se ne stanno in attesa con ardente impazienza. […] Le folle amano la grande musica, la musica di grandi eventi, di grandi amori, di vivide danze. Esse capiscono assai più di quanto credano taluni compositori».
Di folle e di Storia parla il capolavoro beethoveniano che conclude il programma odierno. Umiliata dall’occupazione francese e quindi costretta a un armistizio oneroso, Vienna, patria adottiva di Beethoven, offriva uno spettacolo che il 26 giugno 1809, dieci giorni prima della vittoria di Napoleone a Wagram, Beethoven commentava con queste parole: «Che devastazione e sconquasso attorno a me, nient’altro che tamburi, cannoni, afflizione umana d’ogni genere». Il furore delle armi e le drammatiche difficoltà dei tempi, ahinoi tanto attuali, lungi dal restare ai margini delle composizioni beethoveniane, vi si riversano imperiosamente e impregnano l’invenzione musicale influenzando in misura determinante la qualità della scrittura. Sarebbe impossibile concepire una partitura simile prescindendo dal contesto storico-culturale di un’Europa avviata a completare un secondo decennio di guerre, rivoluzionarie prima e napoleoniche poi: andranno ricondotte al rumore della Storia, meno indirettamente di quanto si potrebbe supporre, la spiccata propensione alla gestualità, le sonorità marziali, l’immagine sonora di un sublime che in quella stagione tanto inquieta non poteva se non assumere il tono d’uno stile eroico. Nacque in quel contesto la Settima sinfonia (si noti, all’avvio del Vivace che finalmente deflagra dopo l’ampia, divagante introduzione, il ruolo propulsivo del ritmo puntato): fragorosa musica di guerra, corroborata dall’ubiquo protagonismo dei fiati, in grado di trasformare il rumore della Storia in pura euforia dionisiaca. Non a caso Wagner lesse questa partitura audace, euforica ed energetica come l’apoteosi della danza: giudizio condivisibile per il ruolo principe che vi assume il ritmo, perfino nel tempo lento, un inconsueto, incantatorio Allegretto, ma che poco aiuta l’ascoltatore odierno, la cui attenzione andrà allertata lungo altri percorsi. Insomma, direbbe Figaro, «invece del fandango, / una marcia per il fango». Andranno infatti piuttosto apprezzati l’andamento da marcia fune bre (intesa, come nell’Eroica, quale tributo sommesso alla memoria di un Grande) del severo Allegretto processionale in La minore (capovolgimento del luminoso La maggiore d’impianto), nobilitato dall’inserzione d’una doppia fuga; la violenza espressiva dello Scherzo, completato da un doppio Trio dalla solennità degna del Campo di Marte; il carattere inequivocabilmente marziale del Finale. Non sembra casuale che la prima esecuzione della sinfonia, a Vienna, nel salone dell’Università, l’8 dicembre 1813, si accompagnasse a quella d’un altro lavoro beethoveniano minore che avrebbe dovuto rappresentare il cuore di quel concerto di beneficenza per soldati austriaci e bavaresi feriti: La vittoria di Wellington. Cinquanta giorni prima Napoleone era stato sconfitto a Lipsia, avvisaglia che un’epoca feroce si avviava a conclusione, non senza evidenti conseguenze perfino sul paesaggio sonoro del Continente.
Raffaele Mellace