Roberta Vacca (1967)
Poker Face (prima esecuzione assoluta, commissione dei Pomeriggi Musicali)
Dmítrij Šostakovič (1906 – 1975)
Concerto n. 1 in Mi bemolle per violoncello e orchestra op. 107
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sinfonia n. 4 in Si bemolle maggiore op. 60
direttore James Feddeck
violoncello Ettore Pagano
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Una sfilata di bellezze strumentali
Il concerto si compone di tre lavori – rappresentativi ciascuno d’un secolo, tra l’Ottocento e il nostro – accomunati dall’intento di far brillare l’orchestra e i suoi strumenti, come gruppo o in evidenza da solisti. La novità di Vacca, ispirata al volto del giocatore di carte, si traduce in un gioco di combinazioni timbriche; il Concerto di Šostakovič è legato alla collaborazione col leggendario violoncellista Mstislav Rostropovič; la Quarta sinfonia di Beethoven conclude la serata all’insegna del più convinto vitalismo.
Biglietteria
Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (fino a 26 anni, oltre i 60 anni, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
Le tre pagine in programma – rappresentative ciascuna d’un secolo, tra l’Ottocento e il nostro – sono accomunate dall’intento di far brillare l’orchestra e i suoi strumenti, come gruppo o in evidenza da solisti. Apre il concerto Poker Face, novità in prima esecuzione assoluta commissionata dai Pomeriggi Musicali a Roberta Vacca. Formatasi al Conservatorio “A. Casella” della natale L’Aquila con Alessandro Cusatelli e Matteo D’Amico, perfezionatasi all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e all’Accademia Chigiana con il compianto Azio Corghi, la compositrice e pianista abruzzese ha al suo attivo numerosi riconoscimenti, sin dalla menzione speciale al Concorso di Composizione “Bela Bàrtok” nel 1997; nel 2003 ha rappresentato l’Italia all’International Rostrum of Composers e nel 2004 al XXVI Foro Internacional de Música Nueva “Manuel Enríquez” in Messico; suoi lavori sono stati commissionati ed eseguiti da prestigiose istituzioni in Italia, in Europa e nelle Americhe, tra cui il Festival Pontino, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, la Biennale di Venezia, Nuova Consonanza, Sentieri Selvaggi, fino alla recente commissione della notevole cantata Luzòur dalla Meglio gioventù di Pier Paolo Pasolini, proposta nel 2022 al 68° Festival Puccini. L’autrice ha inoltre fondato il Gruppo Teatrale Burattinmusica, dedito a produzioni di teatro musicale di figura. Nel rispondere alla commissione dei Pomeriggi, ha concepito una partitura la cui principale finalità è l’esaltazione, in una raffinata scrittura strumentale, delle singole famiglie orchestrali. Muovendo dal modello illustre del bartokiano Gioco delle coppie, secondo movimento del Concerto per orchestra, ha vincolato il lavoro al gioco reale del poker, dalle cui regole deriva l’ispirazione del pezzo. Punti e figure del poker diventano così un riferimento compositivo puntuale, mentre la seconda parte del titolo – che non si limita a una funzione evocativa, ma rappresenta una dichiarazione d’intenti, un’anticipazione effettiva della natura del pezzo – allude alla maschera che deve vestire il giocatore di poker, tenuto a dissimulare e confondere l’avversario sulle carte che ha in mano. Sul piano musi – cale, si tratta d’un mascheramento sonoro che nasce dal gioco delle combinazioni timbriche, principale urgenza espressiva di questa novità. Anche rispetto a questo lavoro sono pertinenti le osservazioni di Renzo Cresti, che evidenziava nella compositrice «la componente ludica e idealistica, unita alla sua passione per il teatro, i cui gesti permeano anche la sua produzione strumentale» e la predilezione per «impianti formali sempre molto chiari e su figure mutuate dalla tradizione e trasfigurate. Gesto teatrale e narratività, il raccontare sia in senso teatrale che in senso musicale, interni all’elaborazione dell’andamento strumentale, sono il vero bisogno espressivo della compositrice».
Ci viene poi incontro uno Šostakovič cinquantunenne, al penultimo incontro con il genere del concerto (il 23/25 novembre scorsi ne abbiamo ascoltato il primo), che gli riserverà sette anni più tardi un’ultima occasione, sempre per il violoncello, strumento che allora abbordava per la prima volta come solista, in entrambi i casi sotto la suggestione di un interprete leggendario: Mstislav Rostropovič. Fu proprio quest’ultimo, che ne è il dedicatario, a presentare il concerto al pubblico dell’allora Leningrado il 4 ottobre 1959. Il pezzo si apre su una pagina introduttiva di grande bellezza, un Allegretto che accumula tensione grazie all’energia degli ostinati, dopo aver esordito con un motto che potrà essere interpretato, così come il secondo tema di questo stesso movimento, come una variante di quello impiegato dal compositore per alludere al proprio nome (attraverso le note indicate con le lettere tedesche D-eS-C-H, cioè D[mitri] SCH[ostakovic]). Il vasto, malinconico Moderato canta un’intensa melodia d’impronta slava esposta nella regione acuta. All’epoca della prima esecuzione il critico Nestjew nella rivista «Musica sovietica» la proclamava direttamente ispirata al folklore russo, segnalandone l’immediata consonanza mostrata dal pubblico in sala. Chiuso il secondo movimento in un’atmosfera onirica cui contribuisce il colore della celesta, unicum nella partitura, segue, a sorpresa, un movimento costituito da un’unica, monumentale Cadenza del violoncello (cui avrà con ogni probabilità messo mano il dedicatario), prima che l’Allegro con moto conclusivo riprenda ciclicamente la tensione del primo, come ciclico è stato il raffinato ritorno dei temi per tutto il concerto.
Chiude il concerto la più ingiustamente negletta delle sinfonie beethoveniane, la Quarta, partitura freschissima, il cui colore dominante, ha scritto Giovanni Carli Ballola, è lo «scorrere leggero e frusciante, come di acqua viva tra i ciottoli di un ruscello». Se effettivamente risenta della gioia di vivere ispirata a Beethoven dal breve idillio di quell’anno, l’estremamente prolifico 1806, con l’«amata immortale», contessa Therese von Brunswik, e/o del soggiorno estivo presso nobili amici ospitali nell’amata campagna, in Ungheria e poi in Slesia, non è dato sapere. «Una slanciata ragazza greca tra due giganti nordici», definì Schumann questa sinfonia, tanto diversa dall’eroismo epico della Terza e della Quinta, quest’ultima interrotta a metà strada per onorare la commissione, rara per una sinfonia beethoveniana, provenutagli dal conte Franz von Oppersdorff. Nel viennese Palais Lobkowitz d’un altro mecenate beethoveniano, avverrà, con successo, la “prima” della sinfonia, nel marzo 1807. Preceduto da un Adagio misterioso, il magnifico Allegro vivace anticipa, anche nel contributo rilevantissimo dei legni, l’euforica vitalità della Pastorale. Dello splendido Adagio Berlioz elogiava «l’espressione della melodia, così angelica e dalla tenerezza tanto irresistibile che l’arte prodigiosa della sua realizzazione resta completamente nascosta», in grado di provocare un’«emozione che alla fine è così intensa da esserne sopraffatti», paragonabile soltanto all’opera d’un grande poeta, all’episodio dantesco di Paolo e Francesca, come se l’arcangelo Michele, «un giorno, assalito da un accesso di malinconia, contemplasse il mondo dalle soglie dall’Empireo». Si degusti l’Adagio fino alla Coda, d’incantata poesia pastorale. Se il baldanzoso minuetto, in realtà uno scherzo, è interrotto per due volte, come avverrà nella Settima, da un trio di rusticana innocenza, il discorso è chiuso da un febbrile, travolgente Finale à la Haydn, che corre a perdifiato a mo’ di moto perpetuo.
Raffaele Mellace