Arvo Pärt (1935)
Fratres
Camille Saint-Säens (1835 – 1921)
Concerto n. 1 in La minore per violoncello e orchestra op. 33
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sinfonia n. 5 in Do minore op. 67
direttore James Feddeck
violoncello Mischa Maisky
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Una parola personale
Accomuna i tre lavori in programma in questo concerto inaugurale la capacità di ciascun autore di esprimere una personalità artistica di assoluto rilievo: di dire, sin dal gesto d’avvio, una parola originale. Gesti diversissimi, come lo è il contesto in cui queste opere nacquero nell’arco di oltre un secolo e mezzo. L’abbagliante gesto virtuosistico del violino che apre Fratres, quello violento e rapinoso del Concerto di Saint-Saëns, l’eloquenza che inchioda l’ascoltatore con la violenza e la pregnanza di un’invenzione dal fascino ineludibile in Beethoven.
Biglietteria
Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (fino a 26 anni, oltre i 60 anni, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
Alla cultura musicale romantica è saldamente ancorato il Concerto per violoncello n. 1 di Camille Saint-Saëns. Scelte formali, originalità d’impostazione, efficacia espressiva del più fortunato lavoro sinfonico del maestro francese, presentato alla Società dei Concerti del Conservatorio di Parigi nel 1873, rimandano in particolare a un modello puntuale: il Concerto per violino in Mi minore op. 64 di Felix Mendelssohn, un quarto di secolo dopo la morte di quest’ultimo. Il lavoro si dimostra un osservatorio formidabile per apprezzare il talento di Saint-Saëns – autore d’un catalogo sterminato che conta ben dieci concerti (questa nostra Stagione proporrà anche il secondo per pianoforte) – nell’individuare formule efficaci capaci di soggiogare le platee più vaste. Tale è il gesto violento e rapinoso con cui il solista apre il concerto, che trascorre senza soluzione di continuità dall’appassionato “Allegro non troppo” all’elegantissimo “Allegretto con moto” in punta di piedi, al conclusivo “Un peu moins vite”. Un’oasi lirica umbratile e suadente come la voce di Dalila nell’opera Samson et Dalila, in scena quattro anni dopo, contrasta efficacemente la frenesia che s’impossessa di questo finale, che prima di chiudersi riprende tanto il tema principale del primo movimento quanto un altro tema, comparso a sorpresa nella sezione di sviluppo, sigillando così in compiuta unità l’intero concerto.
L’unitarietà dell’opera d’arte è la preoccupazione principe da cui mosse anche Beethoven nel concepire una pagina leggendaria come la Quinta sinfonia. «Per quanto la si ascolti, […] la Quinta sinfonia esercita ogni volta, su tutti e a tutte le età, un fascino impressionante: un po’ come quei fenomeni di natura che, per quanto frequenti, riempiono ogni volta di sorpresa e di sbigottimento»: così si espresse Schumann su questo lavoro. Il paragone con un evento naturale violento – temporale, inondazione – rimanda a quella categoria del sublime cui anche Hoffmann alludeva nella recensione uscita nel 1810, a meno di due anni dal con – certo monstre del 22 dicembre 1808 in cui la Quinta era stata presentata, insieme alla Sesta, al Quarto concerto per pianoforte e ad altre pagine beethoveniane, per oltre quattro ore di musica. La tonalità prediletta di Do minore, già adottata nella Grande Sonate Pathétique, nel Terzo concerto per pianoforte e nella “Marcia funebre” dell’“Eroica”, compie ora il proprio destino assumendo la maschera più autentica: la forma eroica. Il motto drammatico, un’epigrafe dantesca, che apre la Quinta – sonorizzazione del «destino che bussa alla porta», secondo quanto riferito ad Anton Schindler da Beethoven, che però poi riferì all’allievo Czerny che era ispirato al richiamo, effettivamente molto somigliante, dello zigolo giallo – attiva un congegno implacabile, un organismo dove tout se tient rigorosamente: una costruzione in cui ogni dettaglio corrisponde al disegno complessivo, all’insegna d’una eloquenza che inchioda l’ascoltatore con la violenza e la pregnanza di un’invenzione dal fascino ineludibile. L’elaborazione motivica si mostra in grado di sostenere campate sinfoniche imponenti sulla base d’un materiale sonoro minimo: il celebre, minuscolo inciso d’avvio formato da quattro note, le prime tre identiche. Nella lettura simbolica e agonistica di Hoffmann, con questa macchina dalla potenza letteralmente inaudita Beethoven realizza una rappresentazione insieme drammatica e trionfante della lotta contro i demoni dell’esistenza, di cui il compositore aveva sviluppato tragica consapevolezza, primo fra tutti l’incombente sordità. Si consideri la chiave di volta dell’intera sinfonia: sul finire del terzo movimento (un “Allegro”, non il consueto “Scherzo”, su un tema originariamente mozartiano: Edward M. Forster lo rappresenterà in Casa Howard come una ridda di folletti), già turbato dall’agonismo feroce del fugato agìto dai bassi, accade senza preavviso una sospensione del discorso, il metafisico incepparsi d’un meccanismo perfetto, in cui il fondamentale Do ribattuto dei timpani conduce a una vera e propria metamorfosi, innescando un episodio sconcertante (per Hoffmann «voce estranea e spaventosa»), prima in pianissimo poi in crescendo, che conduce senza soluzione di continuità all’apoteosi del Finale. Quest’ultimo è un euforico inno di vittoria in Do maggiore dall’orchestrazione rinforzata («un fracasso del diavolo, quasi più di quello che faccio io, che è tutto dire», commentò Verdi ascoltando la sinfonia a Parigi nel 1847; «accecante raggio di sole che improvvisamente squarcia la profondità della notte», scrisse Hoffmann), che trasfigura con una potenza mai ancora sperimentata nella musica assoluta, il trionfo di giustizia, libertà e fraternità, e dei valori umanistici più universali che Beethoven avrebbe cantato nel Fidelio, nell’Egmont e nella Nona sinfonia.
Raffaele Mellace