Il 23 e 25 febbraio torna Jae Hong Park, pianista che ha inaugurato con grande successo la 77a Stagione, sul podio Marco Angius e un programma che si apre con una nuova commissione a Sonia Bo nel segno del tema della stagione (Variazioni di luce) e poi il Concerto n. 3 di Beethoven e la Kammersymphonie di Schönberg.
Programma
Sonia Bo (1960)
Variazioni di luce (prima esecuzione assoluta, nuova commissione dei Pomeriggi Musicali)
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in do minore, op. 37
Allegro con brio
Largo
Rondò. Allegro
Arnold Schönberg (1874 – 1951)
Kammersymphonie n. 2 in mi bemolle minore, op. 38
Adagio
Con fuoco
Direttore Marco Angius
Pianoforte Jae Hong Park
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
L’arte, la vita e il tempo
di Raffaele Mellace
Le partiture che oggi si avvicendano riflettono sul rapporto tra arte, vita e tempo. Estese, tra composizione effettiva e rimandi, su due secoli e mezzi, hanno accompagnato snodi fondamentali dell’esistenza dei loro autori o rappresentato una riflessione sul linguaggio musicale nella sua dimensione storica e nel suo significato nel percorso individuale. S’inizia con il lavoro più recente, commissione dei Pomeriggi musicali, in prima esecuzione assoluta, di Sonia Bo, docente di composizione al Conservatorio “G. Verdi” di Milano, di cui è stata Direttore. Il titolo Variazioni di luce allude alla collocazione di un oggetto (musicale) più o meno a fuoco, illuminato a giorno o in penombra, in una “luce” che dipende dal variare dei parametri: orchestrazione, dinamiche, contesto armonico… Come nella serie in cui Monet dipinge la Cattedrale di Rouen in varie ore del giorno e condizioni atmosferiche. L’oggetto è un tema celeberrimo che il pubblico riconoscerà e seguirà nelle sue metamorfosi. Scelto per la sua modernità (cromatismo, ampliamenti e restringimenti intervallari), il tema ricompare sempre più accorciato, meno riconoscibile, fino al nudo inciso, come a zoomare su frammenti sempre più essenziali. Tra queste riprese, da cui l’autrice (che vanta esperienze “citazionali” come Frame Toccata, Cantate, Blankes Turkenschwert) è partita, si collocano le sezioni più personali. Si consideri l’avvio, misterioso, che crea in un progressivo avvicinamento armonico e ritmico la tensione di un’attesa da cui emerge chiarissimo il tema all’ottavino in una riorchestrazione trasparente, brillante, insistente sul registro acuto.
Il Terzo concerto per pianoforte rappresenta per Beethoven un approdo per l’esperienza creativa di un compositore che non ha soltanto fatto propri i modelli di Haydn e Mozart creando lavori di alto valore estetico, ma ha ormai acquisito una propria fisionomia riconoscibile, un profilo stilistico che emerge da questa partitura in termini quasi programmatici. Si manifesta insomma, come ha scritto Francesco Degrada, «per la prima volta in questa forma la dimensione titanica ed eroica dell’umanità beethoveniana». A cominciare da quel congeniale do minore in cui erano già stati concepiti i Trii op. 1 n. 3, op. 9 n. 3, le Sonate per pianoforte op. 10 n. 1 e soprattutto op. 13 “Patetica” e il Quartetto op. 18 n. 4, in attesa dell’epifania più memorabile di quella tonalità: la Quinta sinfonia. Unico concerto beethoveniano in modo minore, incardinato nella tonalità che era stata del Concerto K. 491 di Mozart, che il compositore più giovane tenne in debito conto, abbozzato già all’altezza del 1796, compiuto verso il 1800, fu presentato a Vienna il 5 aprile 1803 insieme alla Prima e alla Seconda sinfonia, per essere pubblicato solo nel 1804, dedicato al principe Luigi Ferdinando di Prussia. L’Allegro con brio, per l’epoca monumentale, innervato d’un vocabolario eroico-militare (l’onnipresente intervallo ascendente di quarta a imitazione dei timpani, reiterato già dalla terza battuta del primo tema), è costruito sull’evidente contrapposizione tra un primo tema volitivo e perentorio e un secondo, esposto nell’introduzione dal clarinetto, lirico e affettuoso. La perla del lavoro è unanimemente riconosciuta nel Largo, incardinato nella tonalità, remota rispetto al do minore d’impianto, di Mi maggiore, a intonare una meditazione siderale, proposta dal solista con una libertà espressiva tutta beethoveniana e all’epoca inedita, quasi che il compositore/interprete si sia chinato ad auscultare lo strumento, per trarne le risonanze più delicate nel proprio mondo interiore. Tripartita, questa pagina quasi atemporale ospita una sezione centrale in cui il pianoforte orna con arpeggi eterei il dialogo immoto tra flauto e fagotto prima di riprendere la meditazione interrotta. Il concerto si conclude con la sorpresa della Coda del Finale, che un’inopinata metamorfosi di tutti i parametri fa approdare a un esilarante (e strappa applausi) Presto in 6/8 e Do maggiore.
Anche la Kammersymphonie n. 2 op. 38 rappresenta per l’autore, Arnold Schoenberg, quasi il diario delle crisi di una parabola artistica. Infinitamente meno nota della n. 1 op. 9, che nel 1906 rappresentò una svolta, era stata iniziata a ridosso di quella, nell’agosto 1906, abbandonata e ripresa a intervalli irregolari (nel 1907, ’11, ’16) e messa in un cassetto dopo la Grande guerra. Abbandonata l’Austria su cui andava proiettandosi l’ombra del nazismo, riparato negli Stati Uniti il compositore ricevette nell’agosto 1939 l’impulso a riprendere in mano la partitura (completò il I tempo, compose metà del II, rivide e riorchestrò tutto) da Fritz Stiedry, direttore musicale dei New Friends of Music di New York, città in cui la composizione debuttò il 15 dicembre 1940, a oltre trent’anni dall’avvio. Terzo degli opp. 36-39 che Schoenberg compose nei tardi anni Trenta in America, il titolo trae in inganno: i 17 strumenti (il secondo oboe suona anche il corno inglese) imbastiscono un discorso sinfonico che Schoenberg manterrà nei due tempi originari, malgrado la tentazione di aggiungervene un terzo. Dal punto di vista linguistico, la partitura, iniziata all’alba del periodo atonale, superata la fase dodecafonica approda a un neoclassicismo che recupera la tonalità, offrendo all’ascoltatore una sinopia di chiara leggibilità. Inaugurato dall’elegia del flauto, il discorso acquista man mano respiro, si fa serrato, drammatico, persino romanzesco, si muove attraverso paesaggi sonori molto diversi fino a culminare, attraverso una fase conflittuale, a un finale quasi teatrale, sotto il segno d’una tragicità severa: un tono di fondo che pare alludere, al di sotto della bellezza della scrittura orchestrale, a un dissidio interiore irrisolto che, in termini diversi, accompagnò le varie fasi di questa composizione.