Secondo concerto per Stefano Montanari che torna il 30 marzo e l’1 aprile per un programma dedicato al classicismo di Rossini (Introduzione, tema e variazioni per clarinetto con solista il primo clarinetto dell’Orchestra Marco Giani) e alle Sinfonie di Boccherini e Beethoven.
Programma
Gioachino Rossini (1792 – 1868)
Introduzione, tema e variazioni per clarinetto e orchestra
Luigi Boccherini (1743 – 1805)
Sinfonia n. 3 in Re maggiore op. 12 n. 1 G503
Grave. Allegro assai
Andantino
Minuetto. Trio
Presto assai (re maggiore)
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sinfonia n. 1 in do maggiore, op. 21
Adagio molto – Allegro con brio
Andante cantabile con moto
Minuetto. Allegro molto e vivace
Adagio – Allegro molto e vivace
Direttore Stefano Montanari
Clarinetto Marco Giani
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
«Abbondanza di idee»
di Raffaele Mellace
Il commento con cui, lo si vedrà, venne accolta la Prima sinfonia beethoveniana, potrebbe ben qualificare tutti e tre i lavori in programma, impegnati a sfruttare e sfoggiare in molte direzioni le prerogative e potenzialità dell’orchestra classica e di un solista la cui voce a inizio Ottocento suonava ancora meravigliosamente fresca e nuova. È proprio a questo strumento, il clarinetto, che è dedicato il morceau-vetrina dell’Introduzione, tema e variazioni. Il manoscritto che ce l’ha trasmesso, intestato «Andante di Rossini», se lascia adito a qualche dubbio rispetto alla paternità del lavoro, esibisce un’aria di famiglia decisamente rossiniana. Strutturato in due parti distinte, attacca con un’introduzione lenta, come peraltro di norma le sinfonie rossiniane (si è ascoltata il 9 e 11 marzo quella del Barbiere di Siviglia, opera in cui il clarinetto è in grande evidenza), che si presenta analoga nella concezione alla “scena” del melodramma coevo, la pagina cioè che precede l’aria, stabilisce la tonalità espressiva della situazione, e consente al pubblico di familiarizzarsi con il personaggio e al cantante di prendere confidenza con il palcoscenico. Disimpegnata con agio e felice invenzione melodica questa prima sezione, il clarinetto passa ad esporre il tema brillante che sottoporrà a variazioni, da intendersi come vetrina del virtuosismo del solista, in un’epoca in cui – basta por mente a Paganini, amico e sodale di Rossini – saggiare ed eventualmente forzare i limiti tecnici del proprio strumento rappresentava al tempo stesso la tentazione faustiana d’una sfida ineludibile e un’impresa performativa di straordinario fascino presso il pubblico.
Non con un solista ma con lo strumento più sofisticato e complesso dell’orchestra intende sbalordire il pubblico Luigi Boccherini, tra gli autori più importanti del secondo Settecento italiano, alfiere d’un paradigma parallelo e alternativo al classicismo viennese. All’altezza degli anni Settanta in cui l’intercettiamo con il lavoro in programma il Lucchese non è meno avanzato né meno sperimentale nell’elaborazione del genere sinfonico rispetto agli esiti coevi di Haydn. Lo si verifichi nella sinfonia che collocò ad apertura l’op. 12, importante raccolta pubblicata nel 1771 con il titolo di Concerti a grande orchestra e di cui è più nota la n. 4 in re minore “La casa del diavolo”. In Re maggiore è invece incardinato il titolo inaugurale della serie, che esordisce con un Grave che promana calma e piacevolezza: endiadi che riassume in termini emblematici la qualità galante della scrittura boccheriniana. Secondo gli usi di Boccherini, all’introduzione lenta segue l’attacco dal piglio energico dell’Allegro assai, particolarmente notevole nell’avvio in piano con una figurazione concepita per realizzare in poche battute un notevole accumulo d’energia che mantiene alta la tensione per l’intero movimento. Non meno belli i tempi intermedi, un Andantino, che materializza i Campi Elisi d’un lirismo cordiale e sempre misurato, e un energico Minuetto, il cui Trio lascia a riposo i più chiassosi oboi e corni per reclutare in vece loro un flauto, cui è affidato l’onore di condurre in piena libertà il discorso. Pieno di spirito, dalla scrittura mobile nel gioco di dinamiche contrapposte e caratterizzato da un impiego efficace del crescendo è invece il Presto assai conclusivo. La sinfonia circolò, come diverse altre boccheriniane, anche in trascrizione per quintetto d’archi, a dimostrazione della vasta diffusione del genere in un naturale e frequente travaso tra consumo domestico e sala da concerto.
Chi raccolse il testimone del più maturo sinfonismo settecentesco traghettandolo verso il secolo nuovo e prospettive inaudite, fu un giovane compositore tedesco nato l’anno prima dell’uscita della raccolta boccheriniana. Beethoven inaugurò la serie delle sue sinfonie, decisive per le sorte del genere per tutto il secolo nuovo, con una certa prudenza che gli consentì di presentarsi all’appuntamento con le carte in regola nei confronti dei sommi modelli viennesi: il debutto avvenne infatti il 2 aprile 1800, alla vigilia dei trent’anni, al Teatro di Corte di Vienna, a coronamento d’un concerto comprendente significativamente musica di Haydn e Mozart. Dedicata al barone van Swieten, Consigliere intimo e Bibliotecario imperiale, come già una serie di sinfonie amburghesi di Carl Philipp Emanuel Bach, la Prima sinfonia in Do maggiore si segnalò immediatamente per «molta arte, novità ed abbondanza di idee». Armonicamente instabile (a cominciare dal reiterato accordo di settima di dominante con cui la composizione esordisce del tutto irritualmente) e irto di dissonanze, l’Adagio molto d’apertura introduce l’Allegro con brio dal I tema semplice e vigoroso, dal carattere volitivo, che finirà per travolgere nel suo dinamismo senza requie il seducente dialogo tra fiati che costituisce il II tema. L’Andante cantabile con moto, avviato da un tema discreto esposto dai violini II ed esteso progressivamente, prende a prestito un carattere da minuetto, non immemore della Sinfonia in sol K. 550 di Mozart, per una costruzione di grande equilibrio e bellezza. Il sedicente Minuetto è in realtà un vasto, moderno Scherzo dalla velocità e dal piglio travolgenti, placata solo momentaneamente dal Trio, una serenata per fiati animata dal nervoso agitarsi dei violini. Il Finale è poi uno di quei giocattoli à la Haydn, che, costruiti su due temi sbarazzini (il primo di questi concepito già nel 1795-96 per una sinfonia, sempre in Do maggiore, poi abbandonata), innescano il moto inarrestabile dell’orchestra, che non si nega neppure il gesto umoristico d’un avvio in Adagio in cui i violini non sembrano decidersi a portare a termine una scala.