Pietro Mascagni (1863 – 1945)
Preludio da Le maschere
Arnold Schönberg (1874 – 1951)
Pierrot Lunaire op. 21 (versione italiana a cura di Marcello Panni)
Igor Stravinskij (1882- 1971)
Pulcinella (Suite)
direttore Yi-Chen Lin
mezzosoprano Cristina Zavalloni
Filarmonica Arturo Toscanini
Biglietteria
Rinnovo abbonamenti
dall’11 maggio all’11 giugno 2024
Gli abbonati a 21 concerti, “in anteprima” o i possessori di un carnet “liberi di scegliere” a 15 concerti della 79ª Stagione potranno rinnovare il proprio abbonamento alla 80ª Stagione.
Nuovi abbonamenti
dal 18 giugno 2024
Vendita singoli biglietti
dal 9 luglio 2024
Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (under30, over60, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
Note di sala
Schönberg e Stravinskij hanno rappresentato, nel pensiero critico sul Novecento musicale (si pensi all’influente Filosofia della musica moderna di Theodor Wiesengrund Adorno), due paradigmi antinomici, i campioni di due concezioni contrapposte del futuro della musica: entrambi impegnati a interpretare con il loro genio le istanze più attuali della contemporaneità, hanno preso vie diverse. Il programma odierno, che pur necessariamente attinge esclusivamente a due frammenti, due istantanee del loro lungo arco creativo, mostra con piena evidenza l’eterogeneità, quasi l’inconciliabilità degli orientamenti stilistici dei due compositori, mettendoli a confronto su un medesimo piano, quello della parodia, del gioco dell’intelligenza con il linguaggio musicale, e cogliendoli ai due estremi d’uno stesso decennio, al cui centro si accampa terribile il Moloc della Grande guerra.
Fu infatti nel 1912 che Arnold Schönberg, autoesiliatosi a Berlino da una Vienna ostile, scrisse, tra marzo e luglio, quel singolare lavoro di rottura che sono, come recita il titolo originale, le Tre volte sette poesie dal “Pierrot lunaire” di Albert Giraud. La composizione rispondeva a una commissione dell’attrice Albertine Zehme, che portò in scena il lavoro a Berlino il 16 ottobre 1912, vestita da Pierrot, mentre i musicisti, diretti dallo stesso compositore, l’accompagnavano dietro un paravento nero. Fu proprio attorno alle esecuzioni berlinesi del Pierrot lunaire che Schönberg ebbe modo di incontrare Stravinskij: allora, e non più in seguito, i due autori si scambiarono la cortesia di assistere ciascuno a lavori dell’altro, Petruška e Pierrot lunaire.
Pierrot lunaire è un lavoro audace che Pierre Boulez ha definito il «centro di gravità» del catalogo di Schönberg. Ne era cosciente l’autore, che il 13 marzo 1912, il giorno dopo avervi messo mano, annotava nel proprio diario: «Mi sto assolutamente muovendo verso una nuova espressività. Lo sento. Qui i suoni diventano un’espressione immediata, quasi animalesca, di moti dei sensi e dell’anima». Una scelta caratterizzante fu concepire un organico strumentale estremamente ridotto, cameristico, raffinato; decisione tanto più radicale per un autore che con i Gurre-Lieder aveva prodotto una partitura che richiedeva trecento esecutori tra solisti, coro e un’orchestra elefantiaca. Ancor più peculiare è il ruolo che Schönberg asse gna alla voce. Piuttosto che limitarsi a un tradizionale melologo che sovrappone la recitazione all’accompagnamento strumentale, secondo quanto già sperimentato con efficacia nei citati Gurre-Lieder, Schönberg concepì una parte che anima la recitazione in prosa con riferimenti precisi a delle altezze melodiche, il cosiddetto Sprechgesang: non canto spianato, e nemmeno il recitativo dell’opera italiana, ma una restituzione parlata del testo che tenga conto, in punti precisi, di determinati ritmi e altezze (raramente note cantate), da integrare nella partitura, contribuendo con un apporto di rilievo.
La gamma espressiva della composizione è vastissima, poiché spazia dal tratto più delicato alla vitalità dirompente scatenata dagli incubi che scuotono Pierrot. I testi del simbolista belga Giraud, che Schönberg intonò nella traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben, mettono in scena una maschera allucinata, emblema dell’angoscia esistenziale, della crisi di un’umanità smarrita; fino all’orrenda sco perta sulla pelle di quella macchia lunare, segno della morte. Schönberg dichiarò di non aver intonato i testi nella puntualità dei loro significati, bensì di essersi ispirato «solo al suono delle prime parole del testo». Avallò inoltre una relativa autonomia di piani tra testo e musica, poiché la voce «non canta mai il tema, ma, tutt’al più, “parla” contro di esso, mentre i temi (e ogni altra cosa di importanza musicale) sono affidati agli strumenti». Tra questi temi conta senz’altro quello, discendente, “di Pierrot”, esposto al pianoforte nella prima lirica e ripreso continua mente nel ciclo, a conferirvi unitarietà. Due piani, dunque, che scorrono paralleli, senza integrarsi né commentarsi: una forma estrema di parodia, che autorizza una lettura ironica dai confini sempre incerti.
Ben altra forma di parodia va in scena con quel manifesto dell’estetica neoclassica che è il balletto Pulcinella, il cui debutto, il 15 maggio 1920 all’Opéra di Parigi – scenografo Picasso, primo ballerino e coreografo Massine – inaugurò la stagione centrale di Stravinskij. «Pulcinella fu la mia scoperta del passato, l’epifania tramite cui divenne possibile tutto il mio lavoro successivo. Fu uno sguardo all’indietro, naturalmente, il primo dei miei amori in quella direzione; ma fu anche uno sguardo allo specchio». Composto in Svizzera, a Morges, rispondeva alla commissione del patron dei Ballets russes Djagilev d’un accompagnamento pseudosettecentesco a un soggetto della commedia dell’arte in cui Pulcinella è al centro d’una vicenda di gelosia e travestimenti. Iniziata a fine 1919, compiuta il 20 aprile 1920, la partitura si avvale di 21 composizioni “pergolesiane”, oggi ricondotte a un più ampio gruppo di autori. Nella suite orchestrale predisposta nel 1924 e rivista nel 1949 si riducono ad appena tre (II, VII e VIII) le pagine pergolesiane, con la fetta più consistente spettante al veneziano Domenico Gallo. La versione da concerto ripropone della suite barocca la festosa pagina introduttiva, la regolata alternanza tra tempi rapidi e distensione lirica, movimenti di danza e più generiche pagine di carattere motorio, in studiato chiaroscuro che fa sfilare una serie di maschere bizzarre, malinconiche, chiassose o argute. Note trasfigurate, quelle stravinskijane: resistono profili melodici e bassi dei modelli settecenteschi, ma le esili pagine cameristiche sono investite d’una carica parodistica che le snatura e ricrea dall’interno, sottoponendole a una geniale lente deformante. L’ironico duetto trombone-contrabbasso (VII) suona come una cacofonica, sonora smentita delle delizie bucoliche del numero prima (il decorativismo rococò della Gavotta agìta dai legni, come uccellini variopinti di ceramica di Capodimonte), trasformando una sonata di Pergolesi in un numero da cabaret alla Kurt Weill. In primo piano è il parametro ritmico, acuminato, spigoloso, “cubista”, vero dominus, con l’inesausta fantasia timbrica, d’un gioco intellettuale sofisticato, in cui il compositore moderno cerca nell’omologo di due secoli prima l’interlocutore d’un dialogo vitale. Infatti, «solo coloro che sono veramente vivi sanno scoprire la vita presso coloro che sono “morti”».
Raffaele Mellace