Maestri della sintesi
Stravinskij, Dumbarton Oaks
Kodaly, Nyáry Este (Sera d’estate)
Mozart, Sinfonia n. 41 in do magg. K 551 “Jupiter”
Direttore: Ryan McAdams
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Concerto gratuito in streaming
Note di sala
Igor Stravinskij (1882-1971)
Concerto in Mi bemolle maggiore “Dumbarton Oaks”
I: Tempo giusto
II: Allegretto
III: Con moto
Zoltan Kodály (1882-1967)
Nyáry este (Sera d’estate) IZK 28
Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)
Sinfonia n.41 in do maggiore, K551 “Jupiter”
I: Allegro vivace
II: Andante cantabile
III: Menuetto: Allegro
IV: Molto allegro
Maestri della sintesi
Due dei tre lavori in programma, opera di figure chiave della nostra civiltà musicale, Mozart e Stravinskij, si prefiggono un obiettivo ambizioso: una riflessione sull’identità culturale della musica europea. Entrambi mettono infatti a confronto la parola del singolo con la tradizione da cui questi deriva, facendo così emergere tutta l’individualità di scrittura e il mondo espressivo di questi grandi autori. Commissionato dai mecenati Robert e Mildred Woods Bliss per celebrare il 30° di matrimonio, il Concerto in Mi bemolle maggiore per orchestra da camera – composto in Francia nel 1937/38 e diretto a Washington l’8 maggio 1938 da Nadia Boulanger (con l’Autore in Europa a curare la tubercolosi) – prende il nome dalla tenuta della coppia, Dumbarton Oaks, Distretto di Columbia, dove Stravinskij era stato ospite. Non è però la natura il riferimento fondamentale bensì la storia della musica: in particolare i Concerti brandeburghesi di Bach, di cui la partitura moderna vuole costituire un omaggio e un omologo. Lo denunciano lo spirito cameristico e concertante, sin dalla selezione di 15 strumenti (3 legni, 2 corni e 10 archi) che richiama la concezione della raccolta bachiana, intitolata in origine «concerts avec plusieurs instruments»; la sonorità primosettecentesca (sola eccezione il clarinetto); la ripresa, già praticata da Hindemith, dell’inesorabile meccanismo motorio dei tempi estremi; l’adozione, sin dall’attacco, dell’euforico ritmo anapestico (due brevi in levare, una lunga accentuata in battere), in Bach simbolo festivo. Non ne discende un pastiche né a un falso, bensì una partitura originale in cui, sulla scorta dell’estetica neoclassica discussa nel concerto del 14/16 gennaio per Pulcinella, il conflitto tra antico e moderno risulta in un sapore asprigno, convivenza paradossale e vitalissima di linee melodiche aguzze, contrasti metrici, accenti fuori sede: insomma, un’«asprezza cubista» (Giorgio Pestelli). Non manca lo spazio, come spesso in Stravinskij, per l’umorismo, la cui sede parrebbe l’Allegretto centrale, che nel disegno melodico esitante sembra rievocare un memorabile motto verdiano («Se Falstaff s’assottiglia»).
Fa invece i conti con l’espressione in presa diretta del sentimento il poema sinfonico Sera d’estate di Zoltán Kodály, scritto a 23 anni e presentato il 22 ottobre 1906 a Budapest. Debutto del compositore, poi anche grande etnomusicologo e didatta, nell’agone sinfonico, gli ottenne una borsa di studio per proseguire gli studi all’estero. Accantonato, venne ripreso nel 1929, quando fu rivisto dall’autore e dedicato a Toscanini, che lo diresse nel 1930 con la New York Philarmonic Orchestra. Kodály ne parlava, laconicamente, così: «Il titolo significa soltanto che il lavoro è stato concepito nelle sere d’estate, tra i campi di grano tagliato di recente, ascoltando il mormorio delle onde dell’Adriatico». Un ritratto dell’io dell’artista, dunque, più che non del paesaggio circostante. Composto in forma sonata, con classico senso dell’equilibrio, per un’orchestra ridotta, in una scrittura tardoromantica che accoglie elementi folklorici pentatonici estranei al sistema tonale, spalanca uno spazio sonoro evocativo già dall’apertura affidata alla melopea incantatoria del corno inglese, voce che rimarrà, con il flauto e tutta la sezione dei legni, costantemente in primo piano.
Non occorre il nomignolo di “Jupiter”, forse coniato dall’impresario Johann Peter Salomon, per individuare nell’ultima sinfonia mozartiana, completata il 10 agosto 1788, il valore di summa di un’intera esperienza compositiva, l’estremo contributo, benché a tre anni e 80 numeri di catalogo dalla scomparsa del compositore, al genere che Beethoven avrebbe consacrato come il più illustre della musica assoluta. Sintesi suprema di esperienze musicali, culturali ed esistenziali, la Jupiter lo è in sommo grado, con la sua perfetta convivenza di solenne e intimo, serio e faceto, dotto e cordiale, in un organismo che cela miracolosamente le giunture al punto da convincere l’ascoltatore che il fluire d’un linguaggio nel suo opposto sia naturale (anzi naturalissimo, chioserebbe Figaro). Si considerino solo due esempi: l’insinuarsi a sorpresa, nel grandioso I tempo (il cui assertivo attacco all’unisono è esaltato dalle terzine di semicrome ascoltate nello scorso concerto nella Sinfonia K. 318), di un petulante terzo tema, non indispensabile eppure poi fondamentale nello sviluppo e nella coda, tratto dall’aria per basso Un bacio di mano K. 541 che Mozart aveva scritto per l’opera buffa di Anfossi Le gelosie fortunate, in scena quell’anno a Vienna. La citazione, corrispondente ai versi «Voi siete un po’ tondo, / mio caro Pompeo; / l’usanze del mondo / andate a studiar», fa precipitare il livello stilistico, animando in compenso l’ambiziosa architettura sinfonica col bonario cicaleccio del teatro giocoso più alla moda: quasi l’irruzione, scrive Carli Ballola, d’«un Eros fanciullo sorpreso a strappare le penne dell’aquila» di Giove. All’altro capo della sinfonia, il tema che inaugura il Finale risale per li rami a un antico soggetto gregoriano, dal Magnificat del terzo tono, impiegato per secoli, anche da Mozart (nel Credo della Missa brevis K. 192), che qui lo colloca alla base di un tempo sì in forma sonata, ma innervato, tramite il ricorso ai procedimenti della fuga, d’un tale tasso di polifonia da proporre la combinazione in contrappunto multiplo di ben cinque idee tematiche, in una sintesi inedita tra aggiornato linguaggio sonatistico e antico e venerando magistero polifonico. Con la Jupiter Mozart non ci offre però solo un capolavoro di abbacinante, mirabile ingegneria compositiva risultante in una «grandiosa apoteosi, paragonabile a un vertiginoso trionfo tiepolesco» (Massimo Mila), ma eleva un messaggio tutto interiore di serena, olimpica utopia che trascende le sofferenze umane: il messaggio che troverà nel Flauto magico, sul limitare della morte, il sigillo definitivo.
Raffaele Mellace
Ryan McAdams
direttore d’orchestra
Ryan McAdams si sta velocemente affermando come uno dei direttori più versatili ed interessanti della sua generazione. Ugualmente apprezzato come direttore sinfonico, operistico e di musica contemporanea, nella stagione 2019/20 è tornato a collaborare con il Ravello Festival e con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. Nell’autunno 2019, ha diretto la produzione di Les pêcheurs de perles per il Teatro Regio di Torino. Nella stagione 2020/21 dirigerà in Italia la Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna, l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano, di nuovo l’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI e l’Orchestra Sinfonica Siciliana di Palermo. Grande sostenitore della musica contemporanea, Ryan McAdams è stato il direttore d’orchestra per il 103° anniversario della nascita di Elliott Carter al 92Y con Fred Sherry e Nicholas Phan – un concerto che è stato menzionato come uno dei migliori eventi di musica classica del 2011 dal New York Times; ha inoltre diretto in Irlanda la première dell’opera Il Secondo Violinista di Donnacha Dennehy, prima di portare la produzione al Barbican di Londra. Ryan McAdams ha studiato alla Juilliard School e all’Indiana University. È stato il primo vincitore assoluto del Sir George Solti Award come miglior direttore d’orchestra emergente e dell’Aspen-Glimmerglass Prize nella sezione operistica