Europa, volti di una tradizione - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 24 dicembre 2020
Ore: 20:00

Note

Evento in streaming, gratuito

Tempi moderni

Nino Rota, Omaggio a Fellini – Suite per sassofono e orchestra (arr. Roberto Granata)
Honegger, Pastorale d’été
Ibert, Concertino da camera per sassofono e orchestra
Milhaud, Scaramouche per sassofono e orchestra

Direttore e sassofono: Federico Mondelci
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Nino Rota (1911-1979)
Omaggio a Fellini Suite per sassofono e orchestra (arr. Roberto Granata)

Prova d’orchestra
Amarcord
Rocco e i suoi fratelli
I clowns
La strada
Il Gattopardo
Il Padrino
La dolce vita
Otto e mezzo

Arthur Honegger (1892-1955)
Pastorale d’été

Jacques Ibert (1890-1962)
Concertino da camera per sassofono e orchestra IJI 12
I: Allegro con moto
II: Larghetto, poi animato molto

Darius Milhaud (1892-1974)
Scaramouche per sassofono e orchestra

Tempi moderni

Il sassofono, il cinema, un quartetto di autori ancora attivi nel secondo Novecento: tre ingredienti d’un programma che parla il linguaggio della modernità nella sua accezione più accattivante e seducente. Un programma a due volti, che mette a confronto il frutto del leggendario sodalizio tra due artisti italiani con un trio di autori modernisti francesi, i primi impegnati sul fronte cinematografico, gli altri intenti a perseguire nel Novecento la tradizione illustre della musica da concerto. Unisce i due fronti uno strumento, il sassofono, tra i più giovani dell’orchestra, inventato da Adolphe Sax nel 1846 con l’intento di mettere a disposizione delle bande militari una voce di registro medio e di cospicua intensità, sulla scorta degli esperimenti effettuati con i clarinetti di metallo. Il risultato andò ben oltre le aspettative: ne risultò uno strumento estremamente versatile, in grado di spaziare in una vasta gamma espressiva tra brillante agilità acrobatica e un suadente timbro maliconico solum suo. Se il sassofono s’impose nella musica da ballo e nel jazz, i compositori, da Berlioz in avanti, Stravinskij e Schönberg inclusi, non cessarono di sfruttarlo in orchestra.

Il percorso odierno inizia più propriamente nella sala cinematografica, testimone di quasi trent’anni di serrata collaborazione (17 pellicole tra il 1952 e il 1979, l’anno della morte di Rota, al ritmo di più d’un film ogni due anni) tra Federico Fellini e Nino Rota. Il grande compositore pugliese è stato autore prolifico di colonne sonore celeberrime: oltre 150, per Fellini ma anche per Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Francis Ford Coppola, col quale ottenne l’Oscar per Il Padrino parte seconda (nel cinema, d’altra parte, aveva debuttato nel remoto 1933). Nelle sue colonne sonore, così come nella parte restante d’un vasto catalogo che include opere, musica sinfonica e cameristica, s’impose per una propria cifra stilistica inconfondibile: detto con una formula, la leggerezza, la levità dei sogni, le folgoranti, sconcertanti epifanie di gesti musicali – melodie ampie, temi icastici, semplici motivetti – di una bellezza inattesa, pregnante, intensamente suggestiva. La musica dell’«amico magico» contribuisce in maniera determinante nel caratterizzare l’atmosfera di tanti capolavori di Fellini, in tutti i suoi film, con un’unica eccezione, dallo Sceicco bianco, prima regia autonoma del cineasta, a Prove d’orchestra, passando per I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti e Amarcord. Alle immagini felliniane, di cui Rota condivide pienamente l’estetica, il compositore prestò una voce che mescida clownerie e malinconia, echi dei mondi della banda e del circo con un languore peraltro assai adatto alla voce del sassofono; il tutto con un’immediatezza pop, un candore per cui vale ancora l’annotazione di Fedele D’Amico del lontano 1968: «La gente crede di scandalizzarsi perché trova nella sua [di Rota] musica relazioni tonali sempre esplicite, simmetrie melodiche fondate sulle canoniche otto battute, eccetera; ma si sbaglia: lo scandalo è che cose del genere siano ammesse nella sua partitura come naturali, invece di essere messe tra virgolette».

Ci riportano alla sala da concerto i tre autori francesi in programma, due dei quali, Honegger e Milhaud, rappresentano le personalità di maggior rilievo del gruppo noto come Les Six, caratterizzato dalla linearità di una scrittura chiara e distinta, da un eloquio arguto, leggero, brillante, dal ricorso alle forme strumentali della tradizione classico-romantica e insieme dall’apertura a musiche extraeuropee. Assai prossimo alla loro estetica è Jacques Ibert, che condivide l’eclettica disponibilità a una molteplicità di linguaggi dall’estrazione più varia, il classico nitore della forma, l’umorismo, il tono spesso festoso e la capacità descrittiva nella scrittura per l’orchestra. Nitore, eleganza, raffinatezza d’orchestrazione e sicuro, classico senso della forma caratterizzano il breve ed evocativo poema sinfonico Pastorale d’été per orchestra di Arthur Honegger, frutto d’un soggiorno nelle Alpi bernesi dell’estate 1920, traduzione modernista, non poi tanto remota dalle esperienze coeve d’un Respighi o d’uno Janáček, di una profonda sintonia con la natura. Il sassofono ritorna protagonista nella personalità spiccata espressa dal notevole Concertino da camera di Ibert, composto a Parigi nel 1935, che inanella un brillante Allegro di molto fondato sul contrasto sonatistico tra due temi (l’uno travolgente, l’altro lirico) fortemente divergenti, un Larghetto elegiaco e un Animato molto conclusivo che crepita sotto la pelle. Più complessa la vicenda di Scaramouche, che inizia due anni dopo il Concertino di Ibert, quando Milhaud scrive per il Théâtre Scaramouche di Parigi le musiche di scena per una pièce di Molière, Le Médecin volant. Da quel materiale il compositore trae immediatamente una fortunata suite per due pianoforti, che intitolò direttamente a Scaramouche (Scaramuccia), storica maschera della commedia dell’arte. Passano altri due anni e nel 1939 vede la luce questa versione per sassofono e orchestra. Il carattere fantastico, brillante e imprevedibile del personaggio rivive nella musica, fecondato dagli interessi a vasto raggio di Milhaud, molto sensibile ai linguaggi d’Oltreoceano, e modulato nel consueto taglio in tre tempi del concerto classico: apre le danze uno scatenato fox-trot che cede il passo a un’esitante meditazione lirica dalle suggestive sonorità liquide, per chiudere a ritmo di samba con omaggio alla musica popolare sudamericana, frutto d’una fascinazione sviluppata dal compositore durante il biennio trascorso vent’anni prima come addetto d’ambasciata in Brasile. Segno anche questo dei tempi moderni che hanno caratterizzato la musica del Novecento.

Raffaele Mellace

Federico Mondelci
direttore e sassofono

Federico Mondelci è da oltre trent’anni uno dei più apprezzati interpreti della scena internazionale. I suoi studi comprendono il Conservatorio di Pesaro dove consegue il diploma “cum laude” nel 1979 sotto la guida del M° Romano Mauriello e il Conservatorio Superiore di Bordeaux dove ha conseguito il diploma con “Medaglia D’Oro” all’unanimità sotto la guida del M° Jean-Marie Londeix.

Si è esibito come solista con oltre 50 orchestre, tra cui l’Orchestra del Teatro Alla Scala, la New Zealand Symphony Orchestra, la BBC Philharmonic, l’Orchestra da Camera di Mosca, l’Orchestra Sinfonica di Bangkok e  la Filarmonica di San Pietroburgo, dove ritornerà, nella prestigiosa stagione diretta da Yuri Temirkanov in Aprile 2021. Nutre una passione verso la musica contemporanea e affianca il suo nome accanto ai nomi dei grandi autori del Novecento (quali Nono, Berio, Nyman, Kancheli, Glass, Donatoni, Sciarrino, Scelsi, Gentilucci, Graham Fitkin, Nicola Piovani e altri compositori della nuova generazione) eseguendone le composizioni spesso a lui espressamente dedicate, produzioni di straordinario successo che lo conclamano come raffinato solista di raro e straordinario talento. Nel 2017 è stato insignito del titolo di “Marchigiano dell’Anno”.