Musica alata per tempi difficili
Mozart Idomeneo, ouverture
Bartók Divertimento per orchestra d’Archi BB118
Haydn Sinfonia n 101 in re maggiore Hob: I: 101 “L’Orologio”
Direttore: Gabor Takacs-Nagy
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)
Idomeneo, ouverture
Bela Bartók (1881-1945)
Divertimento per orchestra d’Archi BB118
I: Allegro non troppo
II: Molto adagio
III: Allegro assai
Franz Jseph Haydn (1732-1809)
Sinfonia n. 101 in re maggiore Hob.I: 101 “L’Orologio”
I: Adagio – Presto
II: Andante
III: Minuetto: Allegretto e Trio
IV Finale: Vivace
Musica alata per tempi difficili
Due su tre lavori in programma rappresentano la risposta, sconcertante e salvifica, che l’arte sa opporre ai tempi difficili in cui l’artista si trova a vivere. Risposta alata, non eroica, che mette tra parentesi il dramma del mondo per concentrarsi sulla bellezza, pura e rigenerante, della forma. Prelude a questa coppia di titoli un terzo lavoro, capace di tradurre nel medesimo, classico splendore della forma, la cifra ardua del tragico. Si tratta dell’ouverture che Mozart compose come portale d’accesso all’opera seria Idomeneo, in scena al Teatro di Corte di Monaco di Baviera nel 1781. La doppia eccezionalità del lavoro è espressa a meraviglia dalla musica: Idomeneo rappresenta da un lato la svolta nella biografia del compositore, venticinquenne giusto nei giorni della prima dell’opera, che dopo molti anni ha l’occasione di scrivere per un grande teatro, si conferma nella consapevolezza del proprio valore e decide di abbandonare il recinto angusto della patria salisburghese; dall’altro lato, è un titolo rivoluzionario nella storia dell’opera perché generato da un pensiero sinfonico inaudito affidato agli eccellenti musicisti monacensi. Il discorso strumentale si candida così, contro tutta la tradizione, a guidare le scelte drammatiche. Lo preannuncia, anzi già lo realizza, l’ouverture, che restituisce in un unico
movimento dalla tensione incoercibile grandiosità monumentale, inquietudine serpeggiante e propulsione inarrestabile. Tre elementi, già evidenti dalle prime battute, chiamati a introdurre lo spettatore, prima ancora che s’alzi il sipario, alla tragedia del terribile soggetto mitologico antico, che impone al protagonista il sacrificio umano del proprio unico figlio.
Il culto classico della bellezza dovette costituire una scelta consapevole anche per Béla Bartók, che scrisse il Divertimento per archi nelle prime due settimane dell’agosto 1939, un mese prima dell’invasione della Polonia. Il compositore, un anno più tardi esule negli Stati Uniti, già nel 1937, all’annessione dell’Austria al III Reich, esternava l’angoscia per l’involuzione politica del proprio Paese: «C’è il reale pericolo che anche l’Ungheria si arrenda a questo regime di ladri e assassini […] non è concepibile che io possa ancora vivere, ancora lavorare (il che è lo stesso) in un paese così». Le condizioni per comporre – «Mi sento come un musicista dei tempi passati, ospite di un patrono delle arti» – gliele offrì Paul Sacher, già committente della Musica per archi, percussione e celesta, nel villaggio di Saanen, nel Bernese. Fu così l’Orchestra da camera di Basilea a proporre la prima esecuzione assoluta l’11 giugno 1940, il giorno dopo l’ingresso dell’Italia in guerra. L’ispirazione non andrà però cercata solo nella pace della natura svizzera, ma soprattutto in quella via neoclassica imboccata da Bartók già dal 1926, con i viaggi in Italia e l’approfondimento del repertorio barocco. In particolare al concerto grosso, e al suo alternarsi di solisti e del gruppo orchestrale completo, si rifà il Divertimento. Un modello compositivo, aggiornato e attualizzato, che viene integrato con uno degli interessi principali di Bartók: il canto popolare ungherese e rumeno, decisivo nell’invenzione tematica. La serenità della forma, di cui è simbolo il trasparente tessuto degli archi, non è tuttavia esente dal turbamento, già nell’Allegro non troppo iniziale, ma acceso a più riprese nella struggente elegia del Molto adagio, e in controluce nel sempre più incalzante Allegro assai conclusivo, che, nel rielaborare nel 2/4 d’una danza contadina il materiale tematico in 9/8 del I tempo, ostenta l’efficacia spettacolare della dinamica tutti-soli, facendo brillare il virtuosismo dell’intera orchestra.
Haydn iniziò a Vienna la Sinfonia in Re maggiore n. 101 “L’orologio” nel 1793, in vista del viaggio a Londra che il 3 marzo 1794 avrebbe sancito il trionfo della partitura, completata in riva al Tamigi. Aperto dalla decapitazione di Luigi XVI, il 1793 era trascorso tra il frastuono dei cannoni, nella guerra tra la Francia rivoluzionaria, l’Inghilterra e l’Austria; il 16 ottobre era caduta anche la testa di Maria Antonietta, sorella dell’imperatore che regnava a Vienna. Il 6 febbraio 1794, a un mese dalla “prima” della sinfonia, Napoleone Bonaparte veniva promosso generale. Questo il contesto in cui nacque uno dei vertici, con le sinfonie 103 e 104, della produzione sinfonica haydniana e, insieme ai capolavori mozartiani del 1788, di un secolo intero. Il titolo deriva dal meccanismo che inaugura l’Andante, il ticchettio proposto dal pizzicato di violini II, violoncelli e bassi e dai fagotti in staccato, sovrastato da una melodia elementare: ingredienti d’un movimento che andrà valutato, come tutta la sinfonia, per il suo valore più profondo, come un prodigio di costruzione formale sofistica e strumentazione. Elementi che non sfuggirono al giovane Beethoven, giunto a Vienna l’anno prima. Si presti attenzione, nelle peripezie d’un materiale tanto essenziale, a episodi come quello in cui flauti e fagotti ristabiliscono il ticchettio spostando umoristicamente l’accompagnamento sopra la melodia, il momento magico in cui se ne incaricano le viole divise, o una pagina di violenza espressiva intollerabile. Il timbro dei fagotti si era già fatto notare dall’introduzione alla sinfonia, nell’inquieto re minore in cui due anni prima Mozart aveva incardinato il Requiem, così che risalti con tanto più splendore il Re maggiore in cui attacca il Presto in 6/8, caratterizzato da un tema dall’elasticità non comune, un autentico «vento ritmico» (Luigi Della Croce). Difficile stabilire dove non soffermarsi in questo capolavoro: merita senz’altro d’essere segnalato l’originalissimo, ampio Trio, in cui un flauto sbarazzino, coadiuvato anche qui dai fagotti, dal retrogusto militare, volteggia su una struttura ritmica implacabile esaltata dal risuonare secco – un altro meccanismo a orologeria? – delle note ribattute agli archi.
Raffaele Mellace
Gabor Takács-Nagy
direttore
Nato a Budapest, inizia a studiare violino a otto anni. Ancora studente dell’Accademia Liszt, riceve nel 1979 il primo premio al Concorso Jeno Hubay. Studia poi con Nathan Milstein. Per la musica da camera si perfeziona con Ferenc Rados, Andras Mihaly e György Kurtag. Dal 1975 al 1992 è primo violino e fondatore del celebre Quartetto Takacs, che riceve il primo premio nei principali concorsi per quartetto d’archi: Evian (1977) e Londra (1979). Nel 1982 riceve il Premio Liszt e nel 1996 fonda il Takacs Piano Trio, con cui incide in prima esecuzione i lavori dei compositori ungheresi Franz Liszt e Laszlo Lajtha e l’opera completa per violino di Sandor Veress. Dal 1997 è professore di quartetto al Conservatorio di Ginevra e tiene master class in prestigiose accademie internazionali. Nel 1999 dà vita al quartetto Mikrokosmos con Miklos Pereny, Zoltan Tuska e Sandor Papp e nel 2009 la loro registrazione dei quartetti di Bartók si aggiudica il premio Pizzicato-Excellentia. Interprete fra i più autentici della musica ungherese, in particolare di Bartok, Takács-Nagy dal 2001 dedica sempre più energie e spazio alla direzione d’orchestra. È ospite di importanti orchestre internazionali: Irish Chamber Orchestra, Verbier Festival Chamber Orchestra, Budapest Festival Orchestra, Camerata Freiburg, Tapiola Sinfonietta, Toho Gakuen Orchestra. Dal 2010 è Direttore dell’Orchestra Sinfonica MAV di Budapest e della Camerata Manchester.