Le date
Note
Sei Matinée al Teatro Dal Verme
Dal 4 febbraio al 27 maggio 2018
Direttore artistico Maurizio Salerno
Sei appuntamenti musicali di un’ora ciascuno, per avvicinare e avvincere un pubblico eterogeneo, giovane e curioso a repertori, linguaggi e organici musicali estremamente variegati, sempre brillanti. Si va dal concerto barocco al pop, al rock, al jazz, alla musica per film d’autore ed alla animazione disneyana, non senza aver onorato il genio di Rossini, nel 150° della sua scomparsa. Piazzolla, Morricone e Nyman accanto a Mc.Cartney, Sting, Tom Waits e Monk… Ma anche Vivaldi, Corelli, Händel, Haydn Puccini, Barber e Bartók. Una libera e gioiosa reinterpretazione di brani che appartengono al repertorio “storico”, unitamente a una rilettura inedita e vivace di vere e proprie emozioni in musica che hanno costellato il vissuto del grande pubblico d’oggi.
Rossini e non solo…
in occasione dei 150 anni dalla morte
Direttore e adattamenti: Paolo Belloli
Ensemble di fiati I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
In vendita dal 24 novembre 2017
Biglietti (Settore unico, posto numerato)
Intero € 15,00 + prevendita
Ridotto* € 12,00 + prevendita
Ridotto speciale** € 10,00 + prevendita
In vendita dal 24 novembre 2017 al 21 gennaio 2018
Abbonamento a 6 matinée (Settore unico, posto numerato)
Intero € 72,00 + prevendita
Ridotto* € 57,60 + prevendita
Ridotto speciale** € 48,00 + prevendita
*Prezzo riservato a giovani fino a 26 anni e adulti over 60
**Abbonati 73a Stagione Sinfonica Pomeriggi Musicali
Offerta speciale Riservata a chi si abbona entro il 23 dicembre 2017
€ 42,00 + prevendita
Il Cast
Rossini e non solo…
in occasione dei 150 anni dalla morte
Direttore e adattamenti: Paolo Belloli
Ensemble di fiati I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Gioachino Rossini
La gazza ladra, ouverture
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Lo Schiaccianoci (suite, selezione)
Giuseppe Verdi
Giovanna d’Arco, ouverture
Gioachino Rossini
L’italiana in Algeri, ouverture
Georges Bizet
Carmen (suite, selezione)
Gaetano Donizetti
Don Pasquale, ouverture
Gioachino Rossini
Il barbiere di Siviglia, ouverture
“Ho composto l’ouverture de La gazza ladra il giorno stesso della sua rappresentazione, nello “sgabuzzino” della Scala dove il direttore mi aveva rinchiuso. Ero stato messo sotto sorveglianza da quattro macchinisti che avevano l’ordine di recuperare le pagine del mio manoscritto l’una appresso l’altra, e di gettarle dalla finestra ai copisti che le aspettavano per fare il loro lavoro. I macchinisti avevano anche l’ordine di buttarmi dalla stessa finestra se il manoscritto non… avanzava”. Così scrive Rossini in una lettera (in realtà di incerta autenticità), forse un’iperbole aneddotica che tanto piace alla storia ma di certo non lontana dalla realtà. Il mondo dell’opera, che oggi immaginiamo pensoso intorno alle grandi complessità psicologiche, è stato in realtà per almeno un secolo il mondo della velocità. Tempi di composizione stretti, guadagni e fiaschi nel tempo di un lampo, allestimenti fatti di nottate per maestranze (e a volte musicisti), tanto caffè e pasti poco masticati. In questo modo è nato gran parte del canone del melodramma tra metà Settecento e quasi tutto l’Ottocento, un repertorio di temi, trame, suoni e personaggi che costituiscono senza dubbio uno dei pilastri della nostra identità nazionale. Un lato affascinante di questo fenomeno, così grande da essere comprensibile solo parzialmente, è proprio nel fatto che melodie e parole sono entrate nella nostra coscienza con una facilità sbalorditiva, e vi permangono quasi a costituire un repertorio espressivo sempre a disposizione come rifugio mentale.
E l’editoria musicale (solo quella, visto che non esisteva ancora la riproduzione sonora) ne approfittò subito, nasando l’affare. Le opere andavano in scena e nei negozi subito abbondavano elaborazioni, trascrizioni, fantasie su temi, parafrasi, un mondo musicale di edizioni che permettevano la riproduzione di quei temi, quelle melodie, quei momenti drammatici che costituivano il nucleo di ogni opera. Si tratta di un fenomeno ampio, rivolto ad una borghesia che cerca di aristocraticizzarsi almeno attraverso la frequentazione dei teatri e la coltivazione di uno strumento musicale, ma rivolto anche ai virtuosi ed agli organici più snelli di un’orchestra di teatro, portando così l’opera al di fuori delle case d’opera. In questo senso il concerto per soli fiati che andiamo oggi ad ascoltare è storicamente giustificato tanto quanto una messa in scena delle musiche che ascolteremo. Ed il nostro viaggio comincia proprio da La gazza ladra e dalla sua ouverture tanto rapidamente assemblata. Siamo nel 1817, Rossini ottiene un enorme successo per un’opera, questa, alla quale si è applicato con singolare impegno: se l’ouverture è stata composta in un lampo, per l’intera opera egli ha impiegato ben tre mesi, un lasso di tempo molto poco rossiniano. Un rullo di tamburo scuote palchi e platea densi di aspettative ma non è un espediente di facile effetto. Rossini compone un’ouverture che gioca sui temi che informeranno l’opera (diversamente da altre occasioni, in cui effettuerà gratuiti auto-imprestiti), e proprio il tamburo andrà a scandire i cambi di azione di una trama che ancora riesce a divertire e a far pensare, proprio come si addice ad un’opera “semiseria”.
Qualcosa di simile avviene anche in Russia. I russi amano la nostra opera sin dalle produzioni del primo Settecento, la Corte spende a profusione per avere i nostri direttori ed i nostri titoli, fino ad arrivare ad un poco noto ma focale Riccardo Drigo, padovano, che dirige l’orchestra del Teatro Mariinskij in quasi tutte le sue messe in scena. Nel 1892 una di queste è Lo Schiaccianoci, che abita stabilmente nella nostra memoria grazie a numerosi omaggi hollywoodiani (vedi l’indimenticato Fantasia di Walt Disney) ma che invece è una delle composizioni più raffinate e distillate di Čajkovskij. È il suo balletto più corto ma quello che ha scritto a più stretto contatto con un coreografo (Marius Petipa), e soprattutto è musica meravigliosa, nata da una commissione dei Teatri Imperiali Russi. Anche dello Schiaccianoci esiste una Suite di brani, adatta all’orchestra sinfonica ma facilmente esportabile su altre formazioni.
Stavolta, però, non si tratta di un’iniziativa editoriale successiva ma di un’abile operazione di marketing ante litteram: la Suite inizia a circolare prima della rappresentazione del balletto, creando un’aspettativa molto più accesa di qualunque possibilità pubblicitaria, grazie anche ad un tessuto musicale accattivante ma semplice, pensato in ogni dettaglio per imprimersi con facilità nella memoria, ancora oggi.
Torniamo alla Scala e siamo nel 1845. Il nostro Teatro commissiona ad un Giuseppe Verdi oberato di lavoro (siamo nei famosi “anni di galera”) ancora un’opera. Verdi accetta ma inizia a litigare con Merelli, l’impresario che decideva cosa mettere in scena in Scala, e il contendere è come sempre su questioni economiche. Per fortuna Verdi è uomo di princìpi e onora il suo impegno regalandoci una splendida Giovanna d’Arco, ma non accetterà più commissioni da Milano fino al famoso Otello del 1887, ma quella fu tutta un’altra storia. Verdi finisce di orchestrare a prove già iniziate, il successo arriva ma non è esaltante e la critica ha da subito difficoltà a definire questo lavoro. Il lavoro del compositore è ineccepibile ma qualcosa non funziona. Forse Verdi è già troppo avanti e sempre meno incline ai compromessi in ordine ad un successo di cassetta. Di fatto l’opera viaggia, torna in cartellone a Milano ma solo fino al 1865. Dovremo aspettare il S. Ambrogio del 2015 per rivederla in Scala, grazie al recupero audace di Riccardo Chailly. In barba ad ogni considerazione critica, però, resta da riflettere sul fatto che il famoso biografo verdiano Mila considerò l’ouverture come una delle migliori composizioni orchestrali di Verdi (non inferiore ai Vespri Siciliani, ad esempio), e che il compositore stesso, in una lettera al librettista Piave, disse di ritenere la Giovanna d’Arco “la migliore delle sue opere”. Però non sapeva cosa avrebbe composto dopo il 1845…
“La perfezione del genere buffo”, così Stendhal definisce L’italiana in Algeri, due attidi Rossini composti nel 1813. Lasciamo la Scala e andiamo a Venezia, il committente è il Teatro S. Benedetto, il teatro lagunare più importante prima che La Fenice venisse costruita nel 1792 (i due teatri sono coesistiti per parecchio tempo ma poi il meno famoso è diventato un cinema, poi un multisala e adesso ospita perfino un supermercato…). Il successo di quest’opera è immediato e persistente e la sua ouverture è irresistibile. È con questo repertorio che Rossini ci impone di considerare il suo genio: la musica è freschissima e non conosce momenti di stanchezza, l’ouverture entra in medias res senza troppi preamboli, i suoni sono turchi come da copione e la trama è piena di colpi di scena. Non è difficile capire che anche un Richard Strauss ne possa essere rimasto abbagliato!
Con la Carmen di Bizet torniamo sui palcoscenici mondiali e ci troviamo a che fare con un’opera che ha davvero fatto storia. Parigi, Teatro dell’Opéra-Comique, nel 1875 va in scena qualcosa di singolare, di inaspettato. Siamo in un teatro che vuole trame poco impegnative, un pubblico che si vuole gustare una serata rilassante, magari anche divertente e piccantella, e arriva Carmen. La trama soddisfa i requisiti, sì, ma c’è molto, molto di più, e non sempre questo va bene (purtroppo). Bizet è un artista di successo e la prima dell’opera cade proprio nel giorno in cui gli conferiscono la Légion d’Honneur, il 3 marzo, ma Carmen fa scarso successo. A livello superficiale la trama può anche andare ma si avverte sempre la presenza di piani di lettura molto più profondi e questo crea del disagio, la musica è bella ma l’orchestrazione è davvero troppo raffinata (anche pesantuccia e difficile, a detta della buca d’orchestra), e poi la protagonista non è nemmeno una soprano ma una mezzosoprano quasi contralto. Insomma, c’è qualche problema. Bizet muore tre mesi dopo e non lo sa, ma oggi Carmen è la seconda o terza opera più rappresentata ogni anno nelle statistiche di Operabase (il duello costante è con Il Flauto Magico, guarda un po’ due opere che contengono parti recitate). In ogni caso la posizione di testa resta solidamente a La traviata, con incolmabile distacco.
Restiamo a Parigi e nel 1843 vediamo andare in scena il Don Pasquale, opera buffa in tre atti. Anche in questo caso il lavoro non può andare in scena sui palcoscenici deputati ai drammi e agli spiriti tragici e Donizetti scrive quindi per la Salle Ventadour del Théâtre-Italien, un teatro le cui origini si perdono in quella querelle des bouffons dalla quale non siamo ancora veramente del tutto usciti. Il successo è immediato e dirompente e questo grazie alla musica rapida ed efficace di Donizetti ma anche grazie ad una trama che dipinge personaggi del tutto assimilabili alla fortunata Commedia dell’Arte. Pasquale è Pantalone, Ernesto è Pierrot, Malatesta è l’astuto Scapino e Norina è una Colombina della quale non ci si può che innamorare. L’opera gira subito l’Europa e resta lungamente in repertorio, a dispetto di quegli undici giorni in cui si narra che sia stata integralmente composta.
Conclude il nostro viaggio l’ouverture de Il barbiere di Siviglia, ineludibile presenza per ogni concerto lirico-sinfonico che si rispetti. Stavolta siamo a Roma, al Teatro Argentina, nel 1816, e in quei giorni Rossini ha veramente più fretta che mai. Se è vero che la sua vena creativa è immediata e sempre fresca, per quest’opera non c’è neanche il tempo di scrivere un preludio. L’unica soluzione è un’auto-trasfusione, o meglio un meno cruento auto-imprestito. A disposizione c’è già un preludio, e in fondo non interessa a nessuno che sia o meno collegato all’opera che sta per andare in scena. In fondo la funzione dell’ouverture è quella di richiamare l’attenzione di un pubblico un po’ rumoroso, di far sì che la gente lasci i foyers per andare nei palchi e che scenda quel minimo di silenzio necessario almeno per capire le parole. Bene, l’unica possibilità è riprendere la Sinfonia scritta tre anni prima per Aureliano in Palmira, tanto era andata in scena a Milano e comunque non girava un granché. E poi non era la prima volta che Rossini se ne serviva. Senza andare troppo lontani nel tempo, solo quattro mesi prima gli era servita per aprire l’Elisabetta regina d’Inghilterra, stavolta a Napoli. Evidentemente a Rossini quest’ouverture piaceva parecchio. Di certo aveva buon gusto, no?
Andrea Cavuoto