Le date
L’orchestra d’archi, a cavallo tra due secoli e due guerre
Violino solista e concertatore: Fatlinda Thaci
Ensemble d’Archi I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
In vendita dal 24 novembre 2017
Biglietti (Settore unico, posto numerato)
Intero € 15,00 + prevendita
Ridotto* € 12,00 + prevendita
Ridotto speciale** € 10,00 + prevendita
In vendita dal 24 novembre 2017 al 21 gennaio 2018
Abbonamento a 6 matinée (Settore unico, posto numerato)
Intero € 72,00 + prevendita
Ridotto* € 57,60 + prevendita
Ridotto speciale** € 48,00 + prevendita
*Prezzo riservato a giovani fino a 26 anni e adulti over 60
**Abbonati 73a Stagione Sinfonica Pomeriggi Musicali
Offerta speciale Riservata a chi si abbona entro il 23 dicembre 2017
€ 42,00 + prevendita
Il Cast
L’orchestra d’archi, a cavallo tra due secoli e due guerre
Violino solista e concertatore: Fatlinda Thaci
Ensemble d’Archi I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Béla Bartók – Danze popolari rumene
Joc cu bâta (La danza con il bastone), Allegro moderato
Brâul (La cintura), Allegro
Pê-loc (Sul posto), Andante
Buciumeana (La danza del corno di montagna), Moderato
Poargǎ româneascǎ (Polka romena), Allegro
Mǎrunţel (Minuzia), Allegro
Mǎrunţel (Minuzia), Più allegro
Samuel Barber – Adagio
Antonín Dvorák – Serenata in mi maggiore op. 22
Moderato
Tempo di Valse
Scherzo. Vivace
Larghetto
Finale. Allegro vivace
Il rapporto tra i compositori e la loro terra d’origine è un argomento sempre molto considerato poiché in genere è il primo elemento dal quale si parte per cercare di contestualizzare un brano o un corpus di opere. Si tratta, però, di uno strumento delicato, in particolare per la musica che va dal Romanticismo ai nostri giorni. La seconda metà dell’Ottocento, il Novecento e ancor più il secolo che viviamo, sono caratterizzati da un graduale aumento (inarrestabile) della velocità di circolazione delle idee, ed ogni artista creativo ha visto allargarsi il proprio spettro di analisi e si è formato con un sempre più ampio studio dell’antichità e della sua contemporaneità. Anzi, si potrebbe aggiungere che con l’avvicinarsi del Novecento è diventato sempre più difficile cercare una propria voce espressiva e creativa nel chiuso del proprio studio, qualcosa che ci può ricordare figure come Bruckner o alcuni compositori delle aree più estreme del mondo occidentale.
Pur appartenenti ad epoche o a culture diverse, i tre compositori oggi presentati vivono il legame con le proprie origini in maniera dissimile l’uno dall’altro.
Bartók, ungherese del 1881 ma morto a New York nel 1945, è diventato un’espressione della cultura musicale popolare della sua patria, seppur in ambito colto, proprio grazie ad un interesse già giovanile per quel canto che è sulla bocca e nelle coscienze dei suoi connazionali, il folklore, quel repertorio che quasi sempre non ha autori ma ha mille varianti, quella melodia che rifugge dalla semplificazione ritmica ed armonica di un pentagramma, quello è il suo mondo. Bartók raccoglie pazientemente tutto quanto può, chiede a contadini, operai, eremiti di cantare mentre lui registra e poi, di notte, trascrive come può sulla carta da musica. Il suo lavoro è incessante quanto il suo entusiasmo, capisce subito di avere a che fare con un materiale musicale il cui valore non è stimabile ma che merita di essere protetto e tramandato, un corpus di canti che rischia l’estinzione proprio come una specie animale che trova sempre meno riproduzione. Siamo agli albori dell’etnomusicologia ma Bartók ne intuisce l’importanza e compie quel passo che solo un grande compositore può fare: dalla collezione si estrae materiale musicale grezzo e se ne crea un nuovo linguaggio musicale. Bartók non prende le melodie così come sono e le musica, egli ne astrae i principi ritmici, la linea del canto, la libera armonia e utilizza questo nuovo canone come regola compositiva. Certo, egli è un musicista colto e ha saputo assorbire ogni novità che raggiungeva l’Ungheria, ha conosciuto la musica di Debussy grazie al connazionale Kodály che l’ha introdotta ai confini dell’Impero Austroungarico, conosce le novità che Stravinskij apporta alla musica quanto a metro e ritmo, e tutto questo contribuisce alla creazione di un linguaggio speciale.
Ascoltare le Danze rumene oggi ci suona abbastanza usuale, furono uno dei brani che prima conobbero il successo tra la sua produzione, guadagnandogli un’inaspettata pubblicazione a Vienna, nella loro versione originale per solo pianoforte, nel 1915. Ad essa succedette una trascrizione per orchestra da camera (archi con due flauti, due clarinetti e due fagotti), poi la versione per violino e pianoforte e poi tutte le altre che conosciamo, compresa quella per soli archi. Questo profluvio di versioni per diversi organici è proprio l’elemento che tradisce la semplicità della struttura. Abbiamo semplici melodie ben delineate con elementi arabeggianti, armonie elementari ma con qualche elemento che non rende mai scontate le successioni di accordi, una matrice ritmica viva in ogni momento, anche negli episodi più cantabili. Ed il canto la fa da padrone, ogni melodia può essere accennata da chiunque, poiché la base del canto popolare è innanzitutto democratica: un canto è veramente popolare se non richiede alcuna alfabetizzazione musicale o doti vocali, o ancora una particolare concentrazione. Il folklore è il vero respiro di un popolo, e le sue declinazioni transnazionali evidenziano i confini politici meglio di qualunque atlante, in tutta la loro labilità. La sfida era creare arte, cultura alta con i mezzi e l’ispirazione di una cultura che forse è sbagliato considerare “bassa.”
I presupposti da cui muove Barber sono invece del tutto diversi, anche se egli è americano (Pennsylvania, 1910 – New York, 1981) fino al midollo almeno quanto Bartók era ungherese. Parlare di cultura musicale americana è sempre difficile e questo suo sfuggire da una catalogazione certa è proprio la sua principale caratteristica. Quando parliamo di musica americana pensiamo subito al jazz, a Gershwin, al limite a Bernstein e a Broadway, ma difficilmente a qualcuno verrà in mente Copland o Barber o la nuova generazione tuttora attiva di compositori. Questo proprio perché gli Stati Uniti hanno vissuto sempre (concetto ancora valido) in una sorta di soggezione nei confronti dell’Europa, concetto ben espresso ad esempio dalla filmografia di Woody Allen. Questo complesso di inferiorità ha dato però i suoi frutti quando i compositori americani hanno cominciato a sviluppare una capacità sincretistica che in Europa nessuno ha mai avuto in così alto grado. Per cui il linguaggio musicale di ogni compositore è diventato un mix unico tra studio del passato europeo, assorbimento della musica popolare (segnatamente di origine afroamericana) e selezione di quanto di più vicino ogni artista può sentire verso la propria sensibilità. In effetti il risultato è che ogni compositore americano è diverso da un altro e questa eterogeneità è oggi quanto mai benvenuta. Barber è stato un compositore molto acclamato, ha vinto due Pulitzer ed ha ricevuto le migliori onorificenze oltreoceano. Oggi, però, gran parte della sua fama europea è dovuta a questo Adagio. In effetti è un brano bellissimo che ha la capacità di stupire sempre, anche quando lo si conosce bene (primo segno del valore di un’opera). La sua storia però è singolare: esso è il secondo movimento di un Quartetto per archi, del 1936, il suo Secondo (op. 11), che oggi fa parte del repertorio canonico per quartetto ma senza particolare gloria. Barber ne ricavò una versione per orchestra d’archi, aggiungendo quindi i contrabbassi e ritoccando qualcosa nelle parti degli altri archi e nella dinamica. Inviò la partitura a colui che era il dominus musicale americano dell’epoca, Toscanini (invariabilmente europeo oltreché italiano), il quale ricevette il plico e a stretto giro di posta, lo rispedì al mittente pochi giorni dopo. Barber sprofondò nella depressione ritenendo che il suo lavoro proprio non fosse piaciuto al severo ed umorale italiano, scoprendo però che l’anno successivo, nel 1938, Toscanini eseguì l’Adagio proprio con la sua formidabile NBC Orchestra, una vera Ferrari tra le orchestre americane. Fu l’inizio di un successo che perdura senza cedimenti. Il motivo della restituzione della partitura? Semplice, spiegò lo stesso Toscanini, l’aveva letta, gli era piaciuta, l’aveva imparata a memoria e non ne aveva più bisogno. Alla faccia delle fotocopie e delle scansioni. Magari un bigliettino con due parole sarebbe stato opportuno ma Toscanini non era tipo da smancerie ed eccessivi convenevoli…
Con Dvorák il discorso delle origini geografiche e culturali è completamente diverso ma non meno importante. Egli è austroungarico quanto Bartók ma nasce nel regno di Boemia nel 1841, per morire a Praga nel 1904 (dopo una mal sopportata parentesi di qualche anno a New York). Dvorák è apertamente filo viennese, anche se vive ad una delle estremità dell’impero egli sa che il centro culturale che governa è a Vienna, sa che Brahms è il sentiero da seguire e sa anche che troverà il suo migliore pubblico proprio nella capitale. Al di là dei successi di Dvorák, fu proprio Brahms che dischiuse al mondo occidentale il valore del boemo. Il noto e temuto (e burbero) viennese apprezzava Dvorák, anzi, si può dire che lo temesse perché ne conosceva l’abilità compositiva, la cultura e la facilità melodica che ancora oggi rendono popolari molte sue composizioni. In fondo la vera distanza tra i due è proprio l’essere boemo di Dvorák rispetto alla centralità di Brahms (che pure non era viennese ma di Amburgo), e questa differenza etnica è alla base della forse unica differenza tra i due. La musica delle proprie radici non è ancora oggetto di studio per Dvorák ma fonte di ispirazione, quindi l’approccio non è scientifico e non vi è intento catalogativo o conservativo ma qualcosa di più riferibile alle categorie di “spirito del popolo” hegeliane. Dvorák mutua dalla musica popolare qualche ritmo, qualche passo di danza, qualche profilo melodico o qualche formula accordale, ma si tratta di un linguaggio che gli viene spontaneo, qualcosa che ha sulla punta della lingua, un incedere espressivo che si raccorda al suo pensiero musicale e che gli conferisce un sapore particolare. Questo è evidente in ogni sua composizione, anche nella Serenata per archi che compose nel 1875. Si tratta di un brano sostanzialmente sereno, senza particolari scossoni emozionali, senza quelle ombre che appaiono sempre più necessarie per comporre qualcosa di buono. È musica che scorre con il malcelato intento di deliziare come una conversazione affabile tra persone che sostanzialmente concordano sui loro argomenti. La delizia è nella scrittura per gli archi, secondo un linguaggio specifico dovuto alla sua profonda conoscenza degli strumenti ad arco (non dimentichiamo che Dvorák era stato prima viola in teatro a Praga prima che Brahms gli facesse garantire uno stipendio per potersi occupare più continuativamente di composizione). E questa piacevolezza la si riscontra anche dal punto di vista formale, ovvero nella struttura che sorregge la composizione: la forma sonata, quella “scatola” che in genere contiene i contenuti musicali romantici e che ne determina la giustapposizione, è presente solo nell’ultimo movimento della Serenata. Gli altri quattro brani precedenti seguono il più semplice schema A-B-A, con contrasti contenuti e comunque facilmente assimilabili. Nel complesso possiamo affermare che, seppur senza riferimenti extramusicali, la composizione ci porta in una sorta di stato di natura, in un ambiente naturale che il boemo conosceva bene, dove i dissidi si ricompongono facilmente e dove il sostrato popolare o addirittura contadino può esprimersi con quella logica elementare ma ferrea che il più delle volte smonta le sofisticherie cittadine e rende visibili i meccanismi di base che regolano la vita.
Andrea Cavuoto