Note russe fra Otto e Novecento - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 01 febbraio 2007
Ore: 21:00
sabato 03 febbraio 2007
Ore: 17:00

Giovedì 1 febbraio, ore 21 Milano – Teatro Dal Verme
Venerdì 2 febbraio, ore 21 Padova – Teatro Verdi
Sabato 3 febbraio, ore 17 Milano – Teatro Dal Verme
Note russe fra Otto e Novecento
Direttore e violino:
Alexander Janiczek
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Il Programma:
Sergej Sergeevič Prokof’ev
(Sontsovka, governatorato di Ekaterinoslav, Ucraina, 11 aprile 1891 – Mosca, 5 marzo 1953)
Sinfonia n.1 “Classica” in Re maggiore, op.25
Allegro
Larghetto
Gavotta (Non troppo Allegro)
Finale (Vivace)
Pëtr Il’ič Čajkovskij
(Kamsko-Votkinsk, governatorato di Vjatka, 25 aprile 1840 – San Pietroburgo, 25 ottobre 1893)
dal Souvenir d’un lieu cher, op.42 per violino e pianoforte
Mélodie (Moderato con moto) – orchestrazione di Aleksandr Glazunov (1865 – 1936)
Valse-Scherzo, op.34 per violino e orchestra
Allegro, Tempo di Valse

Antonín Dvořák
(Nelahozeves, Kralupy, 8 settembre 1841 – Praga, 1° maggio 1904)
Romanza in Fa minore, op.11 per violino e orchestra
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Serenata in Do maggiore per orchestra d’archi, op.48
Pezzo in forma di Sonatina, Andante non troppo – Allegro moderato
Moderato, Tempo di Valse
Elegia, Larghetto elegiaco
Finale (Tema russo), Andante – Allegro con spirito

Il Concerto
a cura di Andrea Dicht
“Mia madre amava la musica, mio padre la rispettava (…). Non posso affermare che mia madre avesse talento musicale, ma aveva tre virtù musicali: la caparbietà, l’amore, il gusto”. Così Prokof’ev riguardo alla sua famiglia in un testo autobiografico, una dichiarazione schietta in linea con la sua personalità, ma eloquente in merito al proprio atteggiamento verso la musica, una disposizione chiaramente mutuata dall’ambiente familiare ma anche una chiave per leggere la sua vita e la sua opera. Il talento di Prokof’ev, sia come pianista che come compositore, fu evidente sin dalle sue prime prove musicali. Un orecchio infallibile, una straordinaria capacità di assorbire, imitare e sconvolgere modelli compositivi, un’innata percezione del buon gusto unita ad una libertà creativa che gli permise di sfidarlo. La Sinfonia Classica, la prima delle 6 sinfonie che Prokof’ev compose in quarant’anni di produttività febbrile, è spesso il brano d’ingresso per l’appassionato di musica sinfonica nell’opera del russo (ucraino di nascita ma solo per necessità); musica sfavillante, di facile ascolto, singolarmente lontana dalla maggior parte della sua produzione, ma estremamente significativa allo stesso tempo. A dispetto di ogni considerazione di tipo politico (v. i premi Stalin ed il difficile rapporto con il tormentato collega Šostakovič), Prokof’ev fu un compositore libero e quindi imprevedibile, perfettamente inserito nel suo tempo ma sempre ben conscio della modernità e del passato. La Sinfonia Classica fu composta in un periodo difficile: alla catastrofe militare della Prima Guerra Mondiale (1917) si affiancava la disintegrazione del governo zarista, seguita in breve dalla Rivoluzione Russa. Il compositore stesso aveva assistito ad episodi violenti durante la rivoluzione del febbraio 1917 in Pietrogrado, ma sembra che la situazione generale l’avesse scosso ben poco. In volontario isolamento nella campagna della regione di Pietroburgo, e senza l’ausilio di un pianoforte, egli mise mano alla composizione di una sinfonia con la quale intendeva rendere omaggio ai modelli del passato, in particolare a quell’Haydn, vero genitore della forma sinfonica, che aveva così approfonditamente studiato con Nikolaj Čerepnin, suo insegnante di direzione d’orchestra presso il già glorioso Conservatorio di Pietroburgo. “Pensavo che se Haydn avesse vissuto nella nostra epoca, egli avrebbe mantenuto il proprio stile accettando al tempo stesso qualche nuovo elemento”, Prokof’ev scrisse nella sua autobiografia. Queste parole sono molto discutibili, è ovvio per chiunque, ma mostrano con chiarezza le coordinate estetiche entro cui volle muoversi. Lo spirito generale della Sinfonia è leggero, piuttosto estroso e sempre netto nel gesto musicale. La forma è volutamente semplice ed aderente a quella trasparenza strutturale che Haydn insegnò nelle sue sinfonie. Il linguaggio armonico nel complesso usa armi dichiaratamente tonali, a volte anche più semplici rispetto al modello settecentesco, speziate da guizzi e giustapposizioni di toni che si rifanno ad epoche più recenti. La novità si affaccia invece nel suono, particolarissimo ed inimitabile, dell’orchestra di Prokof’ev, un ensemble agile che vuole riappropriarsi di un linguaggio divenuto estraneo e che spesso compie “errori” di pronuncia. La distribuzione delle parti nell’orchestra è audace, gli strumentini sono spesso trattati a coppie e mostrano intenti virtuosistici, gli archi si muovono su una tessitura molto ampia, ben più che in Haydn, e secondo uno stile che ricorda le orchestre virtuose del Settecento (vedi Mannheim). E’ difficile accostare questa Sinfonia alle successive di Prokof’ev, forse (anche per via dell’inserimento di una Gavotta) è più avvicinabile all’architettura di una Suite, ma nonostante ciò per il compositore volle essere la prima sinfonia, un omaggio al passato, un esercizio di stile ed una dichiarazione estetica e di libertà che anticipa di due anni il neoclassicismo di Stravinskij e che nulla ha che spartire con esso.

La vita di Čajkovskij, in una Russia zarista pre-rivoluzionaria ben diversa da quella di Prokof’ev, fu strettamente intrecciata a quella di Nadežda von Meck. Ella era la ricca vedova di un grande industriale, l’ingegnere baltico Karl, che aveva fatto fortuna grazie allo sviluppo delle ferrovie russe. Il rapporto con Čajkovskij durò dal 1876 al 1890, non fu mai diretto poiché i due mai si incontrarono, e si sostanziò di una corrispondenza fittissima: nel corso di quasi quattordici anni si scambiarono circa dodicimila lettere. La nascita di questo sodalizio fu dovuta all’intervento di colui che per anni fu uno dei pochi fidati amici di Čajkovskij, Josif Kotek, suo allievo nonché instancabile ammiratore e sostenitore. Kotek era un buon violinista sin da giovane poi, grazie anche agli studi berlinesi con Joachim, divenne un eccellente solista ed una vita girovaga fece affievolire il suo rapporto con il compositore. I rapporti tra i due furono spesso oggetto di pettegolezzo, data la giovane età del violinista, il suo bell’aspetto, e le sospettate o note inclinazioni omosessuali del compositore. La signora von Meck, rimasta senza marito in un’età ancora giovane, amava la musica e si rivolse a Rubinštein, allora direttore del Conservatorio di Pietroburgo, per trovare un giovane violinista di valore che potesse leggere con lei, buona pianista dilettante, il repertorio musicale per violino e pianoforte. La scelta cadde su Kotek. La von Meck era già un’ammiratrice di Čajkovskij e, su consigliò di Kotek che ben conosceva le difficoltà economiche in cui versava il maestro, gli commissionò dietro un lauto compenso l’arrangiamento per violino e pianoforte di alcune sue musiche. Il sostegno della von Meck non si limitò ovviamente a questa piccola commissione: esso fu primariamente psicologico, come è dimostrato da tutta la corrispondenza, e materiale nella misura in cui ella cercò sempre di offrire al compositore le migliori condizioni per poter creare, mettendo a sua disposizione le sue proprietà, spesso lussuose e smisuratamente grandi rispetto alle esigenze di Čajkovskij. Il lieu cher di cui si fa menzione nel titolo dell’op.42 è esattamente la tenuta di Brailovo che Nadežda mise a disposizione di Pëtr Il’ič nella primavera 1878 affinché potesse riprendersi dal tracollo psicologico ed economico succeduto al disastroso matrimonio che con tanta leggerezza aveva affrontato (con il fine di creare un aspetto sociale accettabile che mettesse fine alle dicerie che lo circondavano e disturbavano). Il Souvenir consiste di tre brani per violino e pianoforte che egli dedicò a Nadežda in segno di gratitudine, il primo dei quali era addirittura in un primo momento stato ideato come tempo lento del famoso Concerto per violino. La Mélodie stasera in prigramma è l’ultimo dei tre brani, che ascolteremo nella strumentazione di Glazunov per violino e orchestra. Si tratta di un’opera di fine cesello su un’unica melodia che informa l’intero brano, una frase che disegna un arco lirico che sarà ripreso, ornato, sviluppato e ancora riesposto dal solista e dall’orchestra, secondo il Čajkovskij melodista che conosciamo, colui che ci porta sempre al confine tra la musica da camera e quella per orchestra e mai, seppur nella semplicità, ci svela il mistero.

Il Valse-Scherzo op.34 è invece un brano di una decina di minuti che Čajkovskij compose l’anno precedente del Souvenir, nel 1877, durante un soggiorno che il compositore ed il giovane Kotek trascorsero in Svizzera. Čajkovskij stava affinando le sue armi sulla scrittura violinistica in vista del Concerto per violino che tutti conosciamo, e sembra che gran parte della vacanza fu dedicata dai due all’esecuzione di praticamente tutto il repertorio disponibile per pianoforte e violino. Il brano è dedicato a Kotek e si compone di tre sezioni delle quali l’ultima è la riesposizione della prima, attorno ad uno sviluppo centrale di carattere lirico. L’atmosfera generale del brano è comunque quella di un acceso virtuosismo che testimonia sia il valore strumentale del dedicatario che la profonda conoscenza del violino da parte del compositore. Va tuttavia considerato che la prima esecuzione del Valse-Scherzo avvenne da parte di un altro giovane violinista, il polacco Stanislav Barcewicz, in occasione di una serata parigina dedicata alla musica di Čajkovskij nel 1878 e diretta da Nikolaj Rubinstein. A completare la complessa personalità del compositore occorre anche ricordare che anni dopo questo periodo tanto denso e sereno, Čajkovskij verrà a sapere della malattia mortale che stava spingendo a morte prematura Kotek. Gli farà visita ma gli negherà ogni tipo di sostegno, lasciandolo a sé e affermando di non aver tempo ed energie da spendere e da sottrarre alla propria attività creativa.

Questo viaggio nel violinismo slavo ci conduce anche nei dintorni di Praga. La Romanza di Dvořák op.11 non è certo tra i brani più noti della sua ampia produzione ma va anche sottolineato che nell’Europa occidentale si esegue stabilmente solo una piccola parte della sua opera: due sinfonie su nove, nessuno dei poemi sinfonici, un’opera su undici, il concerto per violoncello con qualche fugace apparizione di quello per violino e ancor più raramente quello per pianoforte. L’idioma di Dvořák, all’apparenza semplice, a volte disarmante, è però il risultato dell’intervento di più variabili, le più importanti delle quali sono la linea melodica intrisa di un marcato panslavismo ed un senso della forma molto occidentale. Nella Romanza ciò appare evidente: la melodia è raffinatissima, a tratti rarefatta, curata in ogni dettaglio sia nel senso orizzontale della partitura che nel peso ben calibrato della strumentazione. E’ un brano di rarissima esecuzione e anche di scarsa incidenza sul mercato discografico ma che raccomandiamo al nostro pubblico come una perla da tenere in grande considerazione.

Tutt’altro discorso vale per la famosissima Serenata di Čajkovskij, musica eseguitissima ma sempre nuova e fresca nella sua genialità. E’ probabile che Čajkovskij intendesse comporre qualcosa a metà strada tra la sinfonia ed il quintetto d’archi, una caratteristica del suo modo di comporre che abbiamo precedentemente sottolineato, ed in effetti seppure le parti previste dal compositore sono le cinque tipiche della sezione degli archi di un’orchestra, l’idea di un gruppo particolarmente nutrito di archi sembra raccomandabile per questo brano (come notò Toscanini, che era uso eseguirla con una grande quantità di strumentisti).La forma è quella della Serenata, composita e senza richiami tra le varie parti; l’incedere è sinfonico per eloquenza ed elaborazione del materiale musicale; la scrittura è cameristica e di grande ricercatezza sul piano strumentale, al pari di un quartetto o di un quintetto d’archi. In ogni caso Čajkovskij confidò al suo editore Jurgenson che la forma di serenata si era sviluppata per caso, senza che fosse ricercata dalll’inizio. A Nadežda egli scrisse nell’ottobre 1880: “Puoi immaginare, mio amato amico [la chiamava con il maschile] che la mia musa è stata benevolente con me di recente, quando ti dico che ho scritto due ampi lavori molto rapidamente: un’ouverture [l’Ouverture 1812] ed una serenata per archi. L’ouverture sarà molto rumorosa. L’ho scritta senza molto entusiasmo, e per questo non ha un grande valore artistico. La serenata, al contrario, è stata scritta partendo da un impulso interiore: l’ho sentito; o ho l’ardire di sperare che questo lavoro non sia senza qualità artistiche”. Nonostante la sua tendenza a sottostimare anche i suoi migliori lavori, Čajkovskij sembrò avere una speciale affezione per questa partitura. “Mi auguro con tutto il cuore che voi possiate ascoltare la mia serenata eseguita in maniera appropriata”, scrisse ancora nel 1881. “Perde così tanto eseguita al pianoforte (…). Il primo movimento è il mio omaggio a Mozart: vuole essere un’imitazione del suo stile, e sarei deliziato di sapere che ho raggiunto in qualche modo il mio modello”. All’orecchio moderno la Serenata suona in modo affatto mozartiano, è anzi Čajkovskij allo stato puro, ma l’intenzione del compositore appare se la si compara al gesto sinfonico presente nelle sue partiture orchestrali. Quel che sorprende di più in questa partitura è la quantità di colori e timbri che Čajkovskij riesce ad ottenere da una sorgente sonora tutto sommato abbastanza uniforme: solo archi, nessuno strumento a fiato, un’ampiezza di frequenze mai eccessiva. Čajkovskij chiede agli strumentisti ogni possibilità esecutiva: pizzicato, suono in sordina, bicordi di ogni generi, accordi di più note, varietà nei colpi d’arco, ma non si spinge mai oltre i limiti della serena eseguibilità. La richiesta tecnica è ampia ma padroneggiabile: il protagonista non è lo strumento ad arco, ma l’insieme degli archi, il colore è sostituito dal chiaroscuro, e al direttore viene richiesto di dirimere l’ordito delle parti attraverso un bilanciamento molto meticoloso dei pesi delle singole sezioni. La prima esecuzione avvenne in privato al Conservatorio di Mosca, quindi la Serenata fu diretta da Nápravník a Pietroburgo il 30 ottobre 1881 nella stagione della Società Russa di Musica, con grande successo: il valzer fu replicato. Non sappiamo quando Nadežda von Meck potè ascoltarla per la prima volta. I due, con un tacito accordo al quale non vennero mai meno, non si incontrarono mai, né in pubblico né tantomeno in privato. Si tenevano constantemente informati sugli spostamenti personali. Sappiamo che potettero intravedersi senza mai parlarsi di persona. Quando Nadežda ospitava Čajkovskij nelle sue diverse proprietà vi si recava in anticipo per accertarsi che l’accoglienza fosse la migliore possibile, per ripartire con la massima cura prima dell’arrivo dell’ospite.

Alexander Janiczek
Alexander Janiczek è nato a Salisburgo nel 1970 da genitori di origini polacche e ceche. Ha cominciato a studiareviolino con Helmut Zehetmair presso il Mozarteum di Salisburgo. Ha frequentato poi le master class di Max Rostal, Nathan Milstein, Dorothy DeLay e Ruggiero Ricci.

Il suo nome è balzato alla ribalta quando ha vinto a nove anni il Primo Premio al Concorso Nazionale d’Austria. Subito dopo ha suonato come solista con direttori importanti, tra cui Jiri Belohlávek, Michael Gielen, Hans Graf e Manfred Honeck. In seguito ha collaborato con musicisti della fama di Sir Roger Norrington, Murray Perahia, Trevor Pinnock, Yuri Bashmet, Andrew Litton, Ton Koopman, James Macmillan e Emmanuel Krivine.

Lo stretto rapporto che, da quando aveva venti anni, lo ha legato a Sándor Végh e alla Camerata Academica Salzburg, lo ha portato in lunghe tournée presso i più importanti festival europei e americani come primo violino, direttore e solista. Le registrazioni pubblicate contemporaneamente comprendono la Sinfonia Concertante di Haydn e il Concerto in sol magg., eseguite sul famoso Stradivari Paganini appartenente a Sándor Végh.

Nel periodo 1999-2002 ha lavorato intensamente con la Scottish Chamber Orchestra nella veste di primo violino e da allora è stato invitato spesso sia come direttore che come solista in numerose tournée in Scozia e Europa; inoltre ha diretto l’orchestra in una recente incisione per la Linn Records, mentre un altro disco in cui dirige ed è solista sarà pubblicato nel marzo 2007. Viene invitato regolarmente come direttore e primo violino dalla Chamber Orchestra of Europe (con la quale ha fatto lunghi tour in Europa ed Estremo Oriente) e recentemente ha diretto la Swedish Chamber Orchestra.

Accanto alla conduzione di importanti orchestre sinfoniche, tra cui la London Symphony Orchestra, Concertgebouw, Philharmonia, City of Birmingham Symphony Orchestra e Budapest Festival, Alexander Janiczeck affianca la ricerca della prassi esecutiva del diciannovesimo secolo insieme alla Chambre Philharmonique e Emmanuel Krivine e l’Orchestre des Champs Elysées con Philippe Herreweghe.
Appassionato di musica da camera, Janiczek ha suonato con prestigiosi musicisti, tra cui Boris Pergamenschikov, Steven Isserlis, Joshua Bell, Till Fellner, Thomas Adés, Christian Zacharias e Llyr Williams. Nel 2005 e 2006 è stato invitato da Mitsuko Uchida e Richard Goode ad insegnare al Marlboro Music Festival.

Suona lo Stradivari “Baron Oppenheim” del 1716, messo a sua disposizione dalla Banca Nazionale Austriaca.

Il Cast

Direttore: Alexander Janiczek