Primo violino concertatore: Alberto Martini, Pianoforte: Jin Ju I Virtuosi Italiani - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 14 novembre 2024
Ore: 20:00
sabato 16 novembre 2024
Ore: 17:00

Franz Schubert (1797 – 1828)
Ouverture in Do minore D8 (versione per orchestra d’archi)

Fryderyk Chopin (1810- 1849)
Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in Fa minore op. 21 (versione per pianoforte e archi)

Roberto Di Marino
Tzigane per violino e orchestra d’archi (prima esecuzione)

Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893)
Serenata per archi op. 48

primo violino concertatore Alberto Martini
pianoforte Jin Ju
I Virtuosi Italiani

Biglietteria

Rinnovo abbonamenti
dall’11 maggio all’11 giugno 2024
Gli abbonati a 21 concerti, “in anteprima” o i possessori di un carnet “liberi di scegliere” a 15 concerti della 79ª Stagione potranno rinnovare il proprio abbonamento alla 80ª Stagione.

Nuovi abbonamenti
dal 18 giugno 2024

Vendita singoli biglietti
dal 9 luglio 2024

Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (under30, over60, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita

Note di sala

Il concerto odierno spazia per oltre due secoli, dal primo romanticismo a oggi, con un quartetto di autori, còlti in età diverse della loro creatività ma accomunati da un tema: il riferimento a un punto cardinale, l’Est, gravido di implicazioni. A Est di Vienna guarda questa musica, e proprio dalla Vienna di Beethoven inizia il nostro viaggio. Dalla composizione d’un quattordicenne di genio, Franz Schubert, che tra il 29 giugno e il 12 luglio 1811 scrisse l’Ouverture in Do minore D8, lavoro originariamente ignaro della futura vita concertistica, nato per il semplice quintetto d’archi e destinato al consumo nella cerchia familiare. Eppure, d’una pagina assai notevole si tratta, caratterizzata da una strategia drammatica efficace che punta, nel Largo introduttivo, sull’accumulo progressivo d’una tensione che si scaricherà nell’incalzante Allegro seguente: pagina ossessiva, senza via d’uscita, germinata da un minuscolo inciso, a preconizzare lo Schubert maggiore. Dove sta il riferimento orientale? ci si chiederà. Ebbene, il materiale tematico del tragico, dolente Largo deriva dal preludio pianistico al monumentale Lied coevo Il lamento di Agar D5, con cui il 30 marzo precedente Schubert aveva “messo in scena” il personaggio biblico della schiava Agar, abbandonata con il figlio avuto da Abramo nel deserto del Negev, a Sud di Hebron.
Dal Medioriente si ritorna in Europa (orientale) con un altro lavoro di gioventù, benché non così precoce. Il Concerto in Fa minore fu infatti la prima esperienza di Chopin con un genere ineludibile per un interprete che stava costruendo, nell’euforia dei diciannove anni, il proprio repertorio. Preceduto nell’edizione a stampa dal più fortunato concerto gemello n. 1 scritto qualche mese dopo (ascoltato nel concerto dello scorso 17/19 ottobre), fu completato entro l’inverno 1829/30, interpretato dall’Autore il 3 marzo 1830 in privato e il 17 al Teatro di Varsavia, scelto per il debutto a Parigi il 26 febbraio 1832 e poi suonato da Liszt, Clara Schumann e dal connazionale Paderewski. L’ampia introduzione orchestrale del Maestoso esordisce con un profilo melodico originale contrastato dall’improvvisa esplosione in fortissimo d’una gestualità enfatica, gonfia d’umor nero. Il pianoforte entra fantasticando, con un’intimità di eloquio cui l’orchestra lascia volentieri il passo. L’esibizione virtuosistica del solista è, in linea con i coevi concerti Biedermeier, la ragion d’essere del primo movimento, cui offrono abbondanti occasioni, pur in assenza di cadenze, i due temi principali e altrettanti secondari, e lo Sviluppo. Altrettanto accurate e meditate quanto le prime battute del Maestoso sono quelle d’avvio del Larghetto: asserzione reticente dell’orchestra da cui prende il volo, dall’arpeggio di La bemolle maggiore, tonalità d’impianto della pagina, il canto del solista. Di canto infatti si tratta, trasfigurazione della vocalità operistica tra Rossini e Bellini in cui si esaltano a vicenda lirismo e ornamentazione: cantabilità distesa, romanticismo autentico, scevro di sentimentalismo, che molto piacque a Schumann e a Liszt. La sezione centrale ospita a sorpresa un recitativo strumentale del solista sul drammatico tremolo degli archi. La chiave di lettura della pagina ci è offerta dallo stesso Chopin, che il 3 ottobre 1829 confessò a un amico: «Forse per mia infelicità, ho già incontrato il mio ideale, che servo fedelmente, sebbene senza dirle una parola per sei mesi: la sogno di notte e mi ha ispirato l’Adagio [recte Larghetto] del mio Concerto». Si trattava di Konstancja Gladkowska, studentessa di canto al conservatorio di Varsavia, ignara del timido ammiratore. L’Allegro vivace finale, virtuosistico come l’intero concerto, è dominato dallo spirito della danza: se il primo tema arieggia a un valzer, il secondo è a ritmo di mazurka, finché l’euforica coda, con l’ultimo acceso contrasto di questo concerto dai tanti colori, non capovolge il modo in maggiore.
Alla tradizione musicale popolare ungherese, ma anche argentina e russa, in cui spesso il violino è protagonista, si rifà Tzigane, in prima esecuzione assoluta. Firma questa novità Roberto Di Marino, classe 1956, trentino di nascita e formazione. Già docente al Conservatorio di Verona, eseguito in Italia e all’estero da compagini come l’Orchestra di S. Cecilia di Roma, l’Orchestra Haydn di Bolzano o i Solisti di Zagabria, con lavori sinfonici come il Concerto per fisarmonica o quello per violino, o il Doppio concerto per fisarmonica, chitarra e archi, in questa novità il compositore guarda da vicino alla Csárdás ungherese, che convive in alcuni luoghi con il prediletto tango argentino (con un tango Di Marino apre la Suite II per flauto e chitarra), in un quadro formale complessivo esemplato sulla celebre canzone a ballo russa Kalinka. A una libera introduzione del violino segue infatti un tema patetico in tempo lento, che si alternerà a uno più incalzante, finché una reminiscenza del primo tema non ammonirà a godere d’una vita fin troppo breve.
Il concerto si conclude sull’invenzione tematica schiettamente russa del Finale della popolarissima Serenata per archi (1880) che Čajkovskij sottopose al giudizio del mondo il 30 ottobre 1881 a Mosca. La composizione, che l’autore, ansioso di vederla pubblicata, dichiarava di «amare alla follia», rappresenta nel suo complesso l’assimilazione (e acculturazione) dei modelli compositivi classici, cioè eminentemente viennesi e mozartiani, al linguaggio d’un compositore slavo di genio, sintesi compiuta, più che in ogni altro suo collega, tra anime russa e occidentale. La Serenata, che vanta al centro la perfezione incantatoria di uno dei più bei Valzer čajkovskijani e il succedersi di varie maschere espressive nell’Elegia, si trova in perfetto equilibrio tra un primo tempo, dichiarato esplicitamente, in italiano, “Pezzo in forma di sonatina”, dalla stessa struttura lento-veloce dell’ouverture schubertiana, e il Finale (Tema russo), che adotta ed elabora contrappuntisticamente due motivi folklorici, uno dei quali impiegato anche da Modest Musorgskij, tratti da una raccolta di Milij Alekseevič Balakirev, l’anima del Gruppo nazionalista dei Cinque. Molto opportunamente André Lischke ha individuato in questa Serenata della maturità una sorta di ritratto a tutto tondo di Čajkovskij, una sintesi del suo mondo creativo cui concorrono «l’attaccamento al Settecento classico, il senso dell’eleganza coreografica, la sensibilità malinconica e, come sempre, la coscienza delle sue radici nazionali filtrata dal prisma della cultura occidentale».

Raffaele Mellace