RACCONTI SENZA PAROLE - La musica tra mito, letteratura e poesia - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 17 febbraio 2022
Ore: 10:00*
giovedì 17 febbraio 2022
Ore: 20:00
sabato 19 febbraio 2022
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Beethoven Le Creature di Prometeo, ouverture

Mozart  Sinfonia n. 41 in do maggiore K 551 “Jupiter”

Beethoven Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36

Il Cast

Direttore Diego Fasolis
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Beethoven Le Creature di Prometeo, ouverture

 Mozart  Sinfonia n. 41 in do maggiore K 551 “Jupiter”

Allegro vivace
Andante cantabile
Allegretto
Molto allegro

Beethoven Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36

Adagio molto – Allegro con brio
Larghetto
Allegro
Allegro molto

Civiltà sinfonica viennese

Con la musica oggi in programma Mozart e il primo Beethoven s’incontrano idealmente nella Vienna a cavaliere tra Sette e Ottocento. Ne emerge tutta la vitalità del fenomeno storico-musicale noto come classicismo viennese, in cui i petali del «luminoso trifoglio» (come Amadeus Wendt definì nel 1836 Haydn Mozart e Beethoven) si passano il testimone d’una scrittura che neppure oggi cessa di avvincere gli ascoltatori. Il viaggio inizia nel 1801, pietra miliare nel percorso creativo di Beethoven.  A quell’anno risale infatti l’affermazione shock raccolta dall’allievo Carl Czerny: «Non sono molto soddisfatto dei lavori che ho scritto finora; da oggi in poi voglio battere una via nuova». È sorprendente che l’annuncio della svolta del cosiddetto “stile eroico” avvenga al termine d’un biennio particolarmente intenso per composizioni, pubblicazioni, successi, che aveva portato il compositore trentenne a padroneggiare ogni genere strumentale. Questa piena maturità creativa venne salutata dal pubblico viennese col successo tributato il 28 marzo 1801 al balletto eroico e allegorico Le creature di Prometeo, messo in scena al Teatro di Corte dal celebre danzatore e coreografo Salvatore Viganò. Il soggetto ha per protagonista il mito classico del titano che si cimenta nel conferire vita fisica e intellettuale a due statue da lui plasmate (le creature del titolo), mobilitando in Parnaso Apollo, Bacco, Orfeo, le Muse e altre figure mitologiche perché le educhino alla bellezza. Beethoven risponde alla commissione con una partitura – ouverture e sedici numeri – dominata da una cifra di elegante, classico nitore e ispirato lirismo, la cui pagina introduttiva apre il nostro concerto con prorompente, teatrale vitalità.

Alla piena maturità creativa del suo autore risale anche la seconda pagina. Non occorre il nomignolo di “Jupiter”, forse coniato dall’impresario Johann Peter Salomon, per individuare nell’ultima sinfonia di Mozart, completata il 10 agosto 1788, il valore di summa di un’intera esperienza compositiva, estremo contributo, benché a tre anni e 80 numeri di catalogo dalla scomparsa dell’autore, al genere che Beethoven avrebbe consacrato come il più illustre della musica assoluta. Sintesi suprema di esperienze musicali, culturali ed esistenziali, la Jupiter realizza una perfetta convivenza di solenne e intimo, serio e faceto, dotto e cordiale, in un organismo che cela miracolosamente le giunture al punto da convincere l’ascoltatore che il fluire d’un linguaggio nel suo opposto sia naturale – «naturalissimo», chioserebbe Figaro. Si considerino l’insinuarsi a sorpresa, nel grandioso I tempo, di un petulante terzo tema, poi fondamentale nello sviluppo e nella coda, tratto dall’aria Un bacio di mano K. 541 che Mozart aveva scritto per l’opera buffa di Anfossi Le gelosie fortunate, in scena quell’anno a Vienna. La citazione, corrispondente ai versi «Voi siete un po’ tondo, / mio caro Pompeo; / l’usanze del mondo / andate a studiar», fa precipitare il livello stilistico, animando l’architettura sinfonica col bonario cicaleccio del teatro giocoso alla moda, irruzione, scrive Carli Ballola, d’«un Eros fanciullo sorpreso a strappare le penne dell’aquila» di Giove. All’altro capo della sinfonia, il tema che inaugura il Finale risale per li rami a un antico soggetto gregoriano, il Magnificat del 3° tono, impiegato per secoli, anche da Mozart (nel Credo della Missa brevis K. 192), che qui lo colloca alla base di un tempo sì in forma sonata, ma innervato, grazie ai procedimenti della fuga, d’un tale tasso di polifonia da proporre la combinazione in contrappunto multiplo di ben cinque idee tematiche, in una sintesi inedita tra aggiornato linguaggio sonatistico e antico e venerando magistero polifonico. Con la Jupiter Mozart non ci offre però solo un capolavoro di abbacinante, mirabile ingegneria compositiva, una «grandiosa apoteosi, paragonabile a un vertiginoso trionfo tiepolesco» (Massimo Mila), ma eleva un messaggio tutto interiore di serena, olimpica utopia che trascende qualsiasi dolore: messaggio che troverà nel Flauto magico, al limitare della morte, il sigillo definitivo.

Ritorniamo a Beethoven, al 1801 delle Creature di Prometeo, anno degli abbozzi preparatori dell’innovativo Finale di quel capolavoro giovanile che sarà la Seconda sinfonia, avviata l’anno prima, completata quello successivo e presentata al pubblico nel concerto monstre del 5 aprile 1803 al Theater an der Wien che ospiterà il Fidelio, quando vennero tenuti a battesimo l’unico oratorio beethoveniano, le prime due sinfonie e il Terzo concerto per pianoforte. Introduce alla composizione – con gli ultimi lavori di Haydn e Mozart un punto fermo del sinfonismo classico e insieme una piattaforma protesa verso il Beethoven futuro – un ampio, anfrattuoso movimento lento di matrice haydniana (un’«improvvisazione per orchestra», ha scritto Paul Bekker), che lancia un Allegro con brio di grande vivacità ed entusiastica, mozartiana ricchezza tematica. Segue un vasto Larghetto, già proteso verso il melos schubertiano, che il compositore sembra non voler mai abbandonare, rimandandone di continuo la conclusione alternando l’innocente semplicità che lo faceva definire da Berlioz «puro e candido» con pagine da conversazione di civile socievolezza: musica della serenità come le romanze per violino e la futura Pastorale, il cui linguaggio sembra forgiarsi in questa sinfonia tanto gravida d’avvenire. Anche il Trio dello Scherzo è foriero di sviluppi futuri, nella pagina omologa della Nona sinfonia, già preconizzata nell’introduzione al I tempo, per tacere dell’affinità con la melodia l’Inno alla gioia, anch’essa in Re maggiore. Il finale è avviato da un guizzo bizzarro che anticipa l’umorismo d’un libero rondò, stigmatizzato dalla stampa coeva come «troppo bizzarro, selvaggio e chiassoso», tutto un susseguirsi di colpi di scena, ad annunciare una personalità che avrà molto che farà parlare di sé. Quasi dicesse: questo è solo l’inizio…

Raffaele Mellace