RACCONTI SENZA PAROLE - La musica tra mito, letteratura e poesia - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 10 marzo 2022
Ore: 10:00*
giovedì 10 marzo 2022
Ore: 20:00
sabato 12 marzo 2022
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Mendelssohn  La bella Melusina, ouverture

Mozart Concerto n. 13 per pianoforte e orchestra K 415

Farrenc Sinfonia n. 3 in sol minore op. 36

Il Cast

Direttore Valentina Peleggi
Pianoforte Antonio Alessandri
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Mendelssohn  La bella Melusina, ouverture

Mozart Concerto n. 13 per pianoforte e orchestra K 415

Allegro
Andante
Allegro

Farrenc Sinfonia n. 3 in sol minore op. 36

Adagio – Allegro
Adagio cantabile
Vivace
Allegro

Musica nelle capitali europee

 Si parte oggi per un viaggio lungo settant’anni in tre delle capitali europee più significative per splendore della vita musicale tra Classicismo e Romanticismo. Il percorso inizia a Londra, dove il 7 aprile 1834 fu presentata l’ouverture La bella Melusina di Felix Mendelssohn. Ultimato pochi mesi prima, il 14 novembre 1833, ammirato da Schumann, questo lavoro dell’autore ventiquattrenne rappresenta in splendida sintesi la capacità del romanticismo mendelssohniano di conferire forma sonora ai personaggi del mito e ai fenomeni di natura. Ha per soggetto la leggenda tardomedievale di Melusina, figlia d’una fata e del re di Scozia, costretta a nascondere all’amato cavaliere Lusignano la condanna ad assumere periodicamente la forma mostruosa d’un essere metà donna metà serpente. Il drammaturgo austriaco Franz Grillparzer ne aveva tratto un libretto proposto invano a Beethoven ma poi intonato da Conradin Kreutzer come Melusina. Vistolo in scena a Berlino nel 1833, Mendelssohn decise a tradurre la vicenda nel genere congeniale dell’ouverture sinfonica. Concepì una pagina in forma sonata che contrappone sapientemente le aree tonali di Fa maggiore e minore a significare rispettivamente il mondo acquatico della sirena e quello terreno delle passioni tumultuose del cavaliere, in cui balena, con tutto l’empito di cui è capace l’orchestra mendelssohniana, il clangore delle armi. L’introduzione esordisce ai clarinetti con il tema cullante, traslucido, acquoreo che vent’anni dopo Wagner adotterà come motivo delle onde nell’Oro del Reno (e ancora nel 1918 Italo Montemezzi nella sua Nave).

Al pubblico della Vienna giuseppina dove Mozart è da poco approdato in cerca di fortuna, tentando la vita avventurosa del musicista free lance, è destinato il Concerto per pianoforte K. 415 (387 b nell’ultima edizione del catalogo Köchel). Insieme ai compagni 413 e 414 fa parte d’un primo gruppo di lavori, sui ben 17 concerti per pianoforte scritti in un decennio per Vienna, concepiti da Mozart come repertorio proprio di solista alla tastiera per i concerti, o “accademie”, organizzati nella città che definiva «il regno del pianoforte». Il compositore illustrò la serie in una celebre lettera del 28 dicembre al padre Leopold, in cui spiega la brillante strategia adottata per coinvolgere un pubblico per lui nuovo: «Questi concerti sono proprio a metà strada tra il troppo difficile e il troppo facile, molto brillanti, gradevoli all’orecchio pur senza cadere nella vuotaggine; qua e là anche gli intenditori avranno di che essere soddisfatti, ma in modo che anche coloro che non lo sono proveranno piacere senza sapere perché». Estroverso e brillante, concepito per l’organico festivo con trombe e timpani né privo d’influenza sul giovane Beethoven, il monumentale Concerto in Do maggiore uscì per l’editore Artaria insieme ai suoi due fratelli come op. 4 nel 1785 ma fu presentato fresco d’inchiostro da Mozart stesso in diverse accademie al Teatro di Corte nel marzo 1783, presente l’imperatore musicofilo Giuseppe II. L’Allegro d’apertura, che si annuncia con la veste da parata dei concerti militari d’ascendenza parigina in voga tra Sette e Ottocento, alterna invenzione tematica di marca buffa all’interesse per il contrappunto destato dallo studio di Bach e Handel; si prosegue con l’Andante, piccolo gioiello in cui la melodia d’ampio respiro del solista domina incontrastata (i Campi Elisi dell’Orfeo gluckiano filtrati attraverso il sorriso di Mozart, ha scritto Olivier Messiaen); corona il tutto un formidabile, complesso Rondeau alla francese, che come primo episodio ospita a sorpresa un doloroso Adagio parlante in do minore (Mozart aveva pensato a una tale pagina come tempo centrale, salvo poi ritenerla troppo impegnativa), che a due riprese interrompe lo scorrere spensierato del pastorale tema principale, prima d’una memorabile chiusa in pianissimo.

Infine, Parigi, «la capitale del XIX secolo», secondo Walter Benjamin. Ritorniamo infatti all’Ottocento con la Sinfonia n. 3 della notevole compositrice francese Jeanne-Louise Farrenc (1894-75). Di sei mesi più giovane di Berlioz, che la stimava così come anche Schumann, nata dalla dinastia di scultori Dumont, in un contesto ben disposto verso le arti e la loro coltivazione da parte del gentil sesso, la Farrenc mostrò un precoce talento musicale alimentato dalle lezioni di pianoforte di Ignaz Moscheles e Johann Nepomuk Hummel, e da quelle di composizione di Antonín Reicha: una preparazione di prim’ordine che le permise di diventare concertista e, per trent’anni, dal 1842 al 1873, prima e unica docente donna del Conservatorio di Parigi nel suo secolo. Sposatasi diciassettenne con Aristide Farrenc, che la sostenne nella carriera e collaborò con lei alle Edizioni Farrenc, presso cui uscirono 23 volumi della pionieristica collana “Trésor des Pianistes”. La figlia Victorine, concertista anch’ella, non sopravvisse ai genitori. La madre affiancò al pianoforte un’attività di compositrice che fruttò una cinquantina di lavori: se quelli cameristici (tra cui il Nonetto op. 38, 1850, tenuto a battesimo da Joseph Joachim) ottennero riconoscimenti e una certa fama, importante è l’impegno in campo sinfonico, di cui il lavoro in programma è il frutto oggi più apprezzato. Composta nel 1847 e presentata alla Société des Concerts del Conservatorio nel 1849, negli stessi anni in cui Verdi risiede a Parigi e vi allestisce la Jérusalem, la Sinfonia n. 3 è lavoro ambizioso e di grande personalità, che dimostra la puntuale appropriazione della lezione beethoveniana, declinata in senso romantico: ben articolato e dall’invenzione pregnante, può competere con gli omologhi lavori mendelssohniani per intensità drammatica ed efficacia della scrittura strumentale. Nella Parigi di metà Ottocento, in cui la più solida tradizione sinfonica austro-tedesca, dalla quale Berlioz si teneva a distanza, non rappresentava certo la norma, un frutto raro e prezioso, e perciò ancor più pregevole.

Raffaele Mellace