RACCONTI SENZA PAROLE - La musica tra mito, letteratura e poesia - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 24 marzo 2022
Ore: 10:00*
giovedì 24 marzo 2022
Ore: 20:00
sabato 26 marzo 2022
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Delibes  Le roi s’amuse, arie di danza nello stile antico

Malipiero Vivaldiana per orchestra

Beethoven  Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60

 

Il Cast

Direttore Stefano Montanari
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Delibes  Le roi s’amuse, arie di danza nello stile antico

Gaillarde
Pavane
Scène du bouquet
Lesquercarde
Madrigal
Passepied
Final – Gaillarde

Malipiero Vivaldiana per orchestra

Adagio – Allegro
Andante (Quasi Adagio) – Più lento un poco
Allegro – Allegro molto

Beethoven  Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60

Adagio – Allegro vivace
Adagio
Allegro vivace
Allegro ma non troppo

 

Uno sguardo (creativo) al passato

Fare i conti con il passato è un passaggio ineludibile per ogni artista. Le musiche in programma si cimentano consapevolmente in questa operazione, in termini diversissimi ma sempre immancabilmente creativi. Il percorso parte dal punto mediano, le musiche di scena che Léo Delibes compose tra l’estate e l’autunno 1882 per un allestimento, in scena dal 22 novembre alla Comédie Française, a cinquant’anni esatti dal debutto, del dramma di Victor Hugo Le roi s’amuse, universalmente noto nella versione operistica che ne trasse Giuseppe Verdi col titolo di Rigoletto. L’ambientazione nella Parigi del terzo decennio del Cinquecento, sotto il regno di Francesco I (che la censura veneziana costringerà a mutare nel Duca di Mantova), suggerisce al compositore francese di realizzare per la scena del ballo una suite di danze (air, secondo la terminologia dell’epoca del dramma) d’ispirazione antica, cioè un calco di moduli coreutici rinascimentali. All’altezza del 1882 era un procedimento del tutto innovativo, che infatti inaugurò, specie per danze come la pavane, una moda perlomeno ventennale che avrebbe coinvolto Massenet, Chausson, Ravel, Debussy e perfino Satie. Nel resuscitare l’aggraziata gestualità di tanti secoli prima, l’autore di Coppélia, di suo un genio del balletto, poté forse contare sull’assistenza della danzatrice dell’Opéra Laure Fonta, L’Aurore nella produzione originaria di Coppélia, che gli procurò una raccolta di Danseries di Jean d’ Estree (1559). Il florilegio di danze e movimenti descrittivi coronati dalla ripresa della prima danza include una complessa, vivace Gaillarde in cui convivono pompa sovrana e squisiti mezzi toni, una delicata Pavane, trascrizione della pavane vocale sul testo Belle, qui tiens ma vie del teorico rinascimentale digionese Thoinot Arbeau, e un Madrigal altamente espressivo e di somma eleganza.

Il confronto con l’antico si fa più serrato e carico di implicazioni settant’anni più tardi, nonché esattamente settant’anni fa, quando il compositore veneziano Gianfrancesco Malipiero (proprio quell’anno settantenne!) dedicò al concittadino Prete rosso la Vivaldiana per orchestra. Rivisitare musica del Settecento nel 1952 significava intervenire al termine della parabola iniziata all’epoca di Delibes, muoversi sul terreno solido in cui era proliferato da mezzo secolo il neoclassicismo musicale degli Stravinskij ma anche di quella Generazione italiana dell’80 cui apparteneva lo stesso Malipiero, che oltre trent’anni prima, nel 1921, aveva composto una Cimarosiana. Vivaldiana appartiene al novero di quelle che Malipiero definiva «elaborazioni di musica antica», un repertorio con cui poteva vantare grande dimestichezza, avendone curato numerose, pionieristiche edizioni, nelle quali aveva coinvolto anche Gabriele d’Annunzio. Proprio da tali edizioni provengono i sei concerti, salvo uno già tutti editi negli anni immediatamente precedenti, che, due a due, forniscono il materiale per i tre tempi (nell’ordine RV 155, 134, 153, 156, 123 e 126). Malipiero affronta senza batter ciglio il confronto con il passato, cui lo lega un rapporto sentimentale, tanto quanto gli è estranea l’idea di progresso, nella storia come nell’arte, appropriandosi della musica di Vivaldi «in un gioco di mascheramento quasi carnevalesco» (Cesare Fertonani), per cui, confesserà: «ho preso il povero Prete rosso e l’ho mascherato a modo mio». Guadagnati all’orchestra i fiati, la tradizionale impaginazione tripartita dei concerti vivaldiani, pur interpretata con la maggior complessità agogica cui si accennava, propone un primo tempo la cui severità difficilmente si assocerebbe al Vivaldi più noto, il lirismo delicato, ma anche inquieto e fantasmatico del tempo intermedio, per chiudere su una pagina motorica e festiva da concerto grosso, la cui tavolozza timbrica sembra voler competere con i Concerti brandeburghesi.

Con il passato, peraltro assai recente, dei maestri del classicismo viennese pare fare i conti anche la più ingiustamente negletta delle sinfonie beethoveniana, la Quarta, partitura freschissima, il cui colore dominante, ha scritto Giovanni Carli Ballola, è lo «scorrere leggero e frusciante, come di acqua viva tra i ciottoli di un ruscello». Se effettivamente risenta della gioia di vivere ispirata a Beethoven dal breve idillio di quell’anno, l’estremamente prolifico 1806, con l’«amata immortale», contessa Therese von Brunswick, e/o del soggiorno estivo presso nobili amici ospitali nell’amata campagna, in Ungheria e poi in Slesia, non è dato sapere. «Una slanciata ragazza greca tra due giganti nordici», definì Schumann questa sinfonia, tanto diversa dall’eroismo epico della Terza e della Quinta, quest’ultima interrotta a metà strada per onorare la commissione, rara per una sinfonia beethoveniana, provenutagli dal conte Franz von Oppersdorff. Nel viennese Palais Lobkowitz d’un altro mecenate beethoveniano, avverrà, con successo, la “prima” della sinfonia, nel marzo 1807. Preceduto da un Adagio misterioso, il magnifico Allegro vivace anticipa, anche nel contributo rilevantissimo dei legni, l’euforica vitalità della Pastorale. Dello splendido Adagio Berlioz elogiava «l’espressione della melodia, così angelica e dalla tenerezza tanto irresistibile che l’arte prodigiosa della sua realizzazione resta completamente nascosta», in grado di provocare un’«emozione che alla fine è così intensa da esserne sopraffatti»¸ paragonabile soltanto all’opera d’un grande poeta, all’episodio dantesco di Paolo e Francesca, come se l’arcangelo Michele, «un giorno, assalito da un accesso di malinconia, contemplasse il mondo dalle soglie dall’Empireo». Si degusti l’Adagio fino alla Coda, dall’incantata poesia pastorale. Se il baldanzoso minuetto, in realtà uno scherzo, è interrotto per due volte, come avverrà nella Settima, da un trio di rusticana innocenza, il discorso è chiuso da un febbrile, travolgente Finale à la Haydn, che corre a perdifiato a mo’ di moto perpetuo.

Raffaele Mellace