RACCONTI SENZA PAROLE - La musica tra mito, letteratura e poesia - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 07 aprile 2022
Ore: 10:00*
giovedì 07 aprile 2022
Ore: 20:00
sabato 09 aprile 2022
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Melis Visio Smaragdina – Quasi una Passacaglia, commissione Fondazione I Pomeriggi Musicali. Prima esecuzione assoluta
Haydn Concerto n. 1 per violoncello e orchestra
Beethoven Sinfonia n. 3

Il Cast

Direttore James Feddeck
Violoncello Julia Hagen
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Melis Visio Smaragdina – Quasi una Passacaglia, commissione Fondazione I Pomeriggi Musicali. Prima esecuzione assoluta

Haydn Concerto n. 1 per violoncello e orchestra in do maggiore Hob:VIIb:1
Moderato

Adagio
Allegro molto

Beethoven Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 “Eroica”
Allegro con brio

Marcia funebre. Adagio assai
Allegro vivace
Allegro molto

 

Idea poetica

La novità in “prima” assoluta e uno dei classici più iconici del repertorio condividono l’ispirazione a un’idea poetica. La persegue Visio Smaragdina – Quasi una Passacaglia di Andrea Melis. Formatosi con Azio Corghi, Alessandro Solbiati e Adriano Guarnieri, compositore e studioso di filosofia, a lungo direttore della Scuola civica “C. Abbado” di Milano, Melis di diparte da una duplice suggestione letteraria: da un lato le liriche di Cristina Campo, dall’altro gli studi di Henri Corbin sul misticismo iraniano. Le due fonti convergono a suggerire l’esperienza della soglia: terra di mezzo, spazio di confine in cui si sperimenta una realtà altra. Da un lato la soglia onirica dei sensi, sospesa tra ricordo e visione; dall’altro la “visione di smeraldo”, da cui il titolo, che manifesta secondo Corbin il passaggio tra mondo dei sensi e “oltremondo”. Il sottotitolo si riferisce alla forma del brano, costruito sulla sovrapposizione tra un ciclo di tricordi che attraversa una metamorfosi di registri e formule d’orchestrazione, e un secondo, cangiante flusso sonoro. Lo scorrere di questi due piani sonori rappresenta simbolicamente le dimensioni prima evocate, di cui è difficile cogliere il confine preciso, come scrive l’Autore, «nel costante mutare di una trama entro la quale il suono sembra raggiungerci e avvolgerci, per poi volerci abbandonare e riabbracciare un’ultima volta».

A lungo ignoto, finché l’autografo non riemerse a Praga nel 1961, è rimasto un capolavoro strumentale haydniano, che funge oggi da intermezzo. Il Concerto in Do maggiore per violoncello appartiene a una prima, ricca messe per strumento solista che il compositore trentenne realizzò negli anni Sessanta per l’orchestra del principe Esterházy, probabilmente ancor prima della nomina a maestro di cappella (1766). L’impianto tradizionale in tre tempi del concerto veneziano accoglie un’invenzione musicale di meravigliose originalità e freschezza. Inquadrano la composizione due tempi veloci dalla concezione diversissima. Il vasto Moderato d’apertura articola senza fretta un discorso che tempera l’agile dinamismo con un’incoercibile vena lirica, affidati alla “voce” istrionica della parte solistica, memore del probabile primo interprete, Joseph Weigl: suadentissima, quella “voce”, nell’Adagio (il tema ritornerà nell’opera buffa L’infedeltà delusa), in cui emerge dal nulla d’un pianissimo appena percepibile, prodigando l’incanto del linguaggio strumentale haydniano, confermato nel corso del movimento dall’intensa perorazione del violoncello, nella geometria variabile del dialogo con l’orchestra. Una folata d’energia investe nel Finale, in cui l’orchestra lancia il solista in una corsa elettrizzante, preda d’un fremito senza requie, consegnando indelebilmente alla memoria il carattere volage dello strumentista virtuosi.

La Terza sinfonia rappresentò un impegno straordinario, che occupò eccezionalmente Beethoven tra il 1802 e l’inizio del 1804, fruttando un intero quaderno di abbozzi tormentati. Della novità dell’impresa era cosciente lo stesso artista, che nel presentare la sinfonia all’editore chiosava, con notevole understatement: «Credo che interesserà il pubblico musicale». Con l’Eroica Beethoven impresse una direzione nuova alla sinfonia, «Grande» sotto vari profili: nell’accrescimento delle dimensioni, doppie rispetto alle sinfonie precedenti, non per moltiplicazione dei tempi bensì per inusuale dilatazione degli stessi; nell’accrescimento dell’organico orchestrale, che guadagna solo un terzo corno, strumento peraltro chiave nella partitura, ma indica una precisa direzione, ad esempio nella sezione di ottoni, incomparabile con quella settecentesca, alla moderna orchestra sinfonica. La novità più storicamente notevole sta però nell’intento di concepire un intero lavoro all’insegna di un’unica idea poetica: tradurre in suoni una grandezza fuori dal comune, quel sublime che in una stagione tanto inquieta per l’Europa non poteva se non assumere la forma dell’idealità eroica coltivata dall’immaginario neoclassico: la statua di Napoleone come Marte pacificatore di Canova, perfettamente coeva (1803-06) della sinfonia, la cui versione in bronzo campeggia nel cortile di Brera, o i versi del III inno delle Grazie foscoliane, dedicato a Pallade, che «sola tien l’asta paterna / […] per cui splende / a’ magnanimi eroi sacro il trionfo».

Sinfonia Eroica […] composta per festeggiare il sovvenire di un grand’Uomo è il titolo con cui apparve a stampa il lavoro inaugurale della «via nuova» beethoveniana in ambito sinfonico, composto in origine con in mente un nome e un cognome precisi. «Intitulata Bonaparte» recita il titolo poi depennato in testa a un manoscritto, confermato qualche riga più sotto dalla precisazione «Geschrieben auf Bonaparte» (“scritta su Bonaparte”). Col titolo «Bonaparte» Beethoven presentava al suo editore la sinfonia ancora nell’agosto 1804, tre mesi dopo averne rinnegato la dedica alla notizia della svolta tirannica di Napoleone, autoproclamatosi imperatore. Concepita con quell’orizzonte ideale, anche spogliata della dedica originaria la Terza sinfonia resta la sonorizzazione del mito dell’eroe (propugnatore di idee rivoluzionarie, non un nerboruto, atletico Sigfrido), alla cui apoteosi concorrono la concezione complessiva, epica e romanzesca; l’impianto monumentale e la vasta, drammatica e trionfale peripezia dell’elementare e nobile tema principale dell’Allegro con brio (691 battute, di cui 140 per la sola Coda, mentre l’introduzione lenta è condensata in due accordi perentori); la solenne Marcia funebre, completa d’un episodio centrale trasfigurato, che annette, del tutto irritualmente in una sinfonia una meditazione sulla morte; l’aerea, ignea leggerezza dello Scherzo, che col suo Trio agìto dai corni rappresenta la culla del romanticismo musicale tedesco; il Finale che attinge all’autorevolezza del mito classico elaborando il tema che già aveva conclusivo del balletto Le creature di Prometeo.

Raffaele Mellace