Prokof’ev Ouverture su temi ebraici
Schumann Concerto per violoncello e orchestra
Schreker Kammersymphonie
Il Cast
Direttore Ryan McAdams
Violoncello Kian Soltani
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Prokof’ev Ouverture su temi ebraici op. 34 bis
Schumann Concerto per violoncello e orchestra in la minore op. 129
Nicht zu schnell
Langsam
Sehr lebhaft
Schreker Kammersymphonie
Aura
Cos’hanno in comune le musiche di due tra le voci più importante di questa stagione, Prokof’ev e Schumann, con la rarità di Franz Schreker? L’intento di sfruttare il suono dell’orchestra per creare un’aura, un’atmosfera suggestiva ed evocativa. È questo il fine principale dei tre lavori, che prevale su qualsiasi preoccupazione di virtuosismo o pregnanza tematica. Vale paradossalmente anche per l’Ouverture su temi ebraici di Sergej Prokof’ev, in cui qualità e identità dei temi impiegati rivestono naturalmente un’importanza primaria. Giunto a New York all’indomani della Rivoluzione d’ottobre, Prokof’ev vi si imbatté nell’ensemble cameristico Zimro, un sestetto formato da clarinetto, archi e pianoforte, costituito da vecchie conoscenze del Conservatorio di Pietroburgo impegnate in una tournée planetaria finalizzata alla costituzione d’un conservatorio di musica a Gerusalemme. Per arricchire il proprio repertorio, il gruppo commissionò al compatriota un pezzo ispirato alla musica ebraica, mettendogli a disposizione una raccolta di motivi tradizionali. Alla fine del 1919 Prokof’ev confezionò la pagina cameristica richiesta, che quindici anni dopo, nel 1934, trascrisse per orchestra. Si avvalse in particolare di due temi contrastanti: il primo, esposto in apertura dal clarinetto, la guida dell’ensemble, e poi scambiato tra legni, ha il carattere d’una festosa danza nuziale della tipica tradizione nota allora come freilech e ora più comunemente come klezmer, calato in un contesto di dimessa, sorniona nonchalance; il secondo, il canto struggente della buona conclusivo delle celebrazioni nuziali, è proposto dal violoncello, a completare quest’avvincente e commovente evocazione a due facce del folklore ebraico. La pagina preannuncia l’attrazione per la cultura yiddish subita dai compositori russi del Novecento: Šostakovič, che ascoltò il pezzo nel 1924 a Pietroburgo, diventata nel frattempo Leningrado, definirà la musica popolare ebraica «quasi sempre una risata fra le lacrime. Gli ebrei sono stati tormentati così a lungo da aver imparato a nascondere la loro disperazione: esprimono la loro afflizione con la musica da ballo».
Un’aura poetica tutta personale è invece quella che lo Schumann della maturità perseguì nel celebre Concerto per violoncello, pietra miliare del repertorio e unico lavoro di livello dedicato allo strumento per buona parte dell’Ottocento. Nella sua solitudine il lavoro conferma l’approccio tipicamente schumanniano al genere del concerto, ovvero l’idiosincrasia per il virtuosismo e per le regole del genere, tanto che il pezzo nacque semplicemente come Concertstück, «pezzo da concerto». Il compositore lo scrisse in tre settimane nella sua ultima stagione creativa, nell’ottobre 1850, da fresco direttore musicale della città di Düsseldorf, optando per una forma ciclica, ovvero un organismo unitario i cui tre tempi, cementati da riferimenti tematici sotterranei, vanno eseguiti senza soluzione di continuità. È un paesaggio interiore quello che Schumann chiede di evocare al violoncello e all’orchestra in compiuta sintonia: un paesaggio poetico stabilito sin dai tre accordi con cui l’orchestra accoglie la precocissima entrata del solista nell’ambiente di la minore in cui questo concerto, come quello per pianoforte, è impiantato. Predominante è il peso dell’ampio I tempo, in cui il solista sperimenta un dialogo fitto con l’orchestra, ricorrendo alla corda d’un lirismo patetico, ora appassionato ora sommesso, che si fa sempre più drammatico ed ora della ripresa si è caricato di notevole tensione. Risolta con una cantabilità delicata e quasi esitante la breve pausa lirica d’un tempo centrale dalle sonorità attutite, richiamato a mo’ di transizione il tema d’apertura del concerto, il violoncello s’impone come un personaggio dal piglio eroico nel drammatico III tempo, che è difficile resistere alla tentazione di associare alla tormentata vita psichica dell’autore, e che Schumann scelse d’impreziosire con la rarità d’una cadenza, omessa nel I tempo, in cui il solista è accompagnato dall’orchestra in un fantasticare popolato di frammenti di memoria musicale provenienti dall’intero concerto.
Non meno suggestiva è l’aura prodotta dall’ultima, splendida pagina in programma. Ne è autore Franz Schreker, voce di primo piano nel mondo tedesco nel primo quarto del Novecento. Attivo a Vienna, dove si era formato, presenta in “prima” assoluta opere di Schoenberg e si dedica con successo a un teatro musicale di carattere sperimentale. Quando nel 1916, nel bel mezzo della Grande guerra, mette mano alla Kammersymphonie per celebrare il centenario dell’Accademia imperiale viennese di musica e arti rappresentative ha da poco completato il suo capolavoro lirico, Die Gezeichneten (“I predestinati”), ambientato nella Genova del Cinquecento, per elogiare il quale si scomodò persino il nome di Wagner. La pagina sontuosa che ci viene proposta materializza un paesaggio sonoro onirico e iridescente, sofisticato nelle alchimie timbriche e perennemente cangiante nei colori come nelle agogiche: un unico ampio movimento che si sviluppa tra repentine e radicali trasfigurazioni di atmosfere come un poema sinfonico (termine inviso all’estetica modernista dell’epoca, ma di questo in fondo si tratta), facendo tesoro della sperimentazione timbrica cui l’impressionismo debussiano aveva aperto la strada dall’ultimo decennio dell’Ottocento, di casa nella Vienna di Schoenberg, autore dieci anni prima d’un lavoro analogo dal medesimo titolo. Anche la Kammersymphonie racconta una storia, una storia il cui protagonista è il suono, soggetto proteiforme e affascinante cui Schreker, le cui origini ebraiche ci riportano all’apertura del nostro programma, aveva dedicato la sua opera di maggior successo, Der ferne Klang, “Il suono lontano”.
Raffaele Mellace