RACCONTI SENZA PAROLE - La musica tra mito, letteratura e poesia - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 05 maggio 2022
Ore: 10:00*
giovedì 05 maggio 2022
Ore: 20:00
sabato 07 maggio 2022
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Prokof’ev Sinfonia n. 1 “Classica”
Komitas Suite armena
Mendelssohn Sinfonia n. 4 “Italiana”

Il Cast

Direttore George Pehlivanian
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Prokof’ev  Sinfonia n. 1 “Classica
Allegro

Larghetto
Non troppo allegro
Molto vivace

Komitas  Suite armena

Mendelssohn  Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90 “Italiana”
Allegro vivace

Andante con moto
Con moto moderato
Presto

Da terre lontane

 

Concerto odierna presenta musica che ha a che fare col concetto di viaggio. Musica che proviene da lontano, che ha viaggiato, o che è frutto dell’esperienza, ricchissima, dell’incontro con altri popoli e culture rappresentata dal viaggio. Nel 1918 il giovane Sergej Prokof’ev lascia la Russia in fiamme portando con sé a New York la partitura della Sinfonia “classica” in Re maggiore, scritta nei due anni precedenti e presentata a S. Pietroburgo, allora Pietrogrado, il 21 aprile 1918. Sorprendentemente, la composizione, saldamente e assai precocemente ispirata all’orientamento estetico neoclassico, nulla tradisce dei drammatici eventi rivoluzionari. Si configura piuttosto come una sinfonia di Haydn al quadrato: si badi, non una parodia, cioè un falso, bensì la restituzione del sereno orizzonte espressivo haydniano rivissuto dal venticinquenne russo con un candore che produce il miracolo d’una perfetta immedesimazione negli ideali estetici del classicismo viennese. Idee tradotte nella nettezza adamantina di oggetti musicali dal carattere pregnanti. Ed ecco allora che la musica crepita sotto la pelle nel frizzante Allegro d’apertura, naturalmente in forma sonata; non si scompone nel passo elegante e misurato d’un Larghetto in cui convivono misura olimpica e umorismo discreto; imbocca la strada d’una danza dal profilo inconfondibile nella sapida Gavotte. Non troppo allegro (prima delle quattro pagine a veder la luce nel 1916), preferita al regolamentare minuetto e reimpiegata vent’anni dopo nel balletto Romeo e Giulietta; si congeda infine dagli ascoltatori con la frenesia inarrestabile del bel Finale. Molto vivace.

Sempre da Oriente da una latitudine più meridionale, cioè dall’Armenia proviene invece padre Komitas, il cui linguaggio abbiamo già avuto modo di conoscere e apprezzare in uno dei primi concerti di questa stagione. Formatosi in un monastero armeno, ordinato sacerdote con il nome di Komitas, già appartenuto a un compositore di inni del VII secolo, e destinato ad ascendere fino al dottorato in teologia nel 1895, il giovane religioso, votato innanzitutto alla musica, sviluppò due passioni che ne orientarono il gusto e la produzione: il canto liturgico e la musica popolare. Sempre nel 1895 pubblicò una prima raccolta di trascrizione proprie di canti popolari. Trasferitosi a Berlino, su consiglio del grande violinista sodale di Brahms Joseph Joachim, si iscrisse a una scuola di musica privata e contestualmente all’università, proseguendo, nei tre anni di permanenza nella capitale del Reich, la realizzazione di arrangiamenti di canti popolari armeni, accanto a composizioni libere anche ambiziose, come il Salmo 137. Aggregatosi alla Società internazionale di musicologia, pubblicò sul primo numero della rivista sociale un articolo sulla trascrizione della musica liturgica armena, tema al centro anche d’una vivace attività di conferenziere. Questo apostolato per la musica e la cultura armena culminò nella partecipazione al Congresso della Società internazionale di musicologia a Parigi nella primavera del 1914, giusto alla vigilia dello scoppio della Grande guerra, quando diede relazioni e organizzò un concerto nella chiesa armena. Abbiamo già raccontato la conclusione tragica di questa vicenda: l’anno dopo, nelle prime fasi del Genocidio armeno perpetrato dai turchi, Komitas venne arrestato e deportato, trauma da cui il compositore/musicologo non si riprese più.

Per Mendelssohn viaggiare, incontrare civiltà e paesaggi lontani rappresentava l’occasione per tradurre in suoni la risonanza di quelle esperienze in un animo colto, sensibile, ricettivo. A Roma Mendelssohn compose buona parte della Sinfonia “Italiana” nel lungo soggiorno del 1830/31, ma sicuramente non il II tempo, per completarla a Berlino nel 1832/33, dovendo onorare una prestigiosa commissione della Philarmonic Society di Londra. La sinfonia rappresenta programmaticamente, specie nei tempi estremi, l’evocazione di quella «più grande gioia di vivere» che per l’amburghese aveva costituito l’esperienza folgorante del nostro Paese, sulle orme del Viaggio italiano di Goethe, amico personale del compositore. Tale solarità – che significa anche apollinea classicità della forma – è tradotta in gesto sonoro nel tema travolgente di ampio respiro con cui la sinfonia attacca senza indugio con reiterati intervalli ascendenti sull’impulso ritmico in 6/8 della danza toscana nota come trescone. Né è un caso che coroni la sinfonia un trascinante Saltarello («il pezzo più divertente che abbia scritto», lo definirà alla sorella), fondato su un efficacissimo meccanismo di crescendo, ispirato alla danza popolare che anche Berlioz avrebbe impiegato nel suo Carnevale romano. Diversa connotazione presentano i tempi intermedi, in cui agisce la nostalgia dell’Europa Settentrionale. In particolare, il severo Andante con moto in re minore presenta un carattere di ballata mutuato da un Lied goethiano, Il re di Tule, di Carl Friedrich Zelter, nordico anche nel soggetto (la mitica Tule andrà identificata con le Isole Shetland, se non con la Norvegia): una pagina dall’andamento processionale con cui Mendelssohn tributa un omaggio al suo maestro berlinese, scomparso nel 1832. Il terzo tempo, Con moto moderato, che l’autore dichiarò ispirato a una poesia umoristica di Goethe, Lilis Park, ospita una fanfara di corni, quasi il sipario che prepara l’ingresso dei personaggi del Sogno di una notte di mezza estate, la cui ouverture risale a pochi anni prima. L’ultima zampata il giovane Mendelssohn la riserva per la conclusione della sinfonia, che, caso unico in letteratura, benché impiantata in modo maggiore si chiude in minore, nel la minore del Saltarello che capovolge il radioso La maggiore d’impianto, gesto che all’epoca sarà suonato non meno che sconcertante, tanto più che nella Coda del Finale compaiono in minore – come lampi nelle tenebre – frammenti del I tema dell’Allegro con cui la sinfonia si era aperta.

Raffaele Mellace