Ravera Aracne per orchestra di fiati, commissione Fondazione I Pomeriggi Musicali; prima esecuzione assoluta
Fauré Ballata per pianoforte e orchestra
Beethoven Sinfonia n. 7
Il Cast
Direttore Jacopo Brusa
Pianoforte Alessandro Deljavan
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Ravera Aracne per orchestra di fiati, commissione Fondazione I Pomeriggi Musicali; prima esecuzione assoluta
Fauré Ballata per pianoforte e orchestra
Beethoven Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92
Poco sostenuto – Vivace
Allegretto
Presto
Allegro con brio
Aracne , per orchestra di fiati
Il brano trae spunto dal mito di Aracne raccontato nelle Metamorfosi di Ovidio: la mortale Aracne verrà punita da Atena che la trasformerà in un ragno per l’eternità.
La parte iniziale del brano rappresenta Aracne, impareggiabile a tessere la tela, più di Atena a suo stesso dire; la voce arriva alla Dea che sotto celate spoglie prima cerca di far ritrattare la mortale e poi tenta di difendere il suo primato in un duello senza riuscirci: le diverse linee melodiche, cangianti e dinamiche si dipanano scorrendo su un’unica trama che si dilata e restringe coinvolgendo l’orchestra di fiati in una rigenerazione continua di eventi.
La seconda parte inizia con la presa di coscienza e la metamorfosi che domina il brano in quasi tutta la sua durata. L’ultimo istante di comprensione di Aracne che coglie il senso della sua vittoria e al tempo stesso della sua condanna, un pensiero di consapevolezza del limite raggiunto e superato e le conseguenze inevitabili di tale superbia.
La trasformazione è insinuante, deprivante fisicamente e mentalmente, riduce l’ego della sfrontata per farla sparire dagli occhi della Dea. Si alternano i fiati come voci lontane, intrise di un’umana angoscia che da vita al lirismo dei singoli strumenti sopra un tappeto inquietante creato dal rullo del timpano, tutto resta sospeso ad un filo che vibra e inizia a tessere una nuova trama musicale, colori e suoni si fondono in una forma tesa alla ricerca di una tregua a cui si giunge solo alla fine dove emerge un senso di pace.
Mi sono chiesta se per Aracne fosse condanna o illuminazione. Ho voluto credere nell’illuminazione, Aracne-Ragno trova un modo di esprimere quel talento per l’eternità senza superbia, senza ulteriori sovrastrutture trasformando inaspettatamente la punizione in un premio: la pace interiore, la libertà di godere della propria arte che diventa risorsa vitale. La conclusione del brano giunge con la tela continua creata dal glockenspiel sulla quale emerge il canto dell’oboe, proteso verso l’acuto come accettazione finale della metamorfosi e della pace raggiunta.
Alessandra Ravera
La forma come dramma
Accomuna i tre lavori, diversissimi, oggi in programma un pensiero compositivo condiviso. L’aspirazione a realizzare, attraverso il linguaggio musicale, un teatro virtuale brulicante di figure sonore che rappresentano in modo plastico la vita interiore dell’autore. Questa è senz’altro l’intenzione della compositrice romana Alessandra Ravera, autrice della novità in cartellone. Formatasi con Azio Corghi e Ivan Fedele, insignita di premi e commissioni prestigiose, eseguita in tutto il mondo e attualmente docente al Conservatorio dell’Aquila, Ravera concepisce la scrittura musicale come «rappresentazione simbolica di momenti dell’esistenza», atto in grado di «ricondurre a un centro e ricomporre in un’unità organica tutto ciò che mi è apparso disperso e frammentario». La via per realizzare un simile ideale passa attraverso la dialettica tra elementi musicali di tipo quasi teatrale, per cui la forma diventa il luogo della drammatizzazione del suono. La scelta di figure e gesti strumentali sono così alla base di una fondamentale «narratività e teatralità della musica», al punto da dar vita a un autentico «teatro di figure musicali». Versi poetici o figure mitiche concorreranno dunque, come sottotesto, a «definire lo spazio sonoro del brano, a proporne l’immagine e l’idea timbrica».
Un sottotesto ispiratore parrebbe sotteso anche a una pagina ambiziosa come la Ballata che Gabriel Fauré ultimò entro il settembre 1879, ancora sotto l’influsso del Sigfrido ascoltato a Bayreuth. Negli stessi anni in cui Monet apriva nuove prospettive alla pittura, all’origine di questo fascinoso capolavoro giovanile si collocherebbe, secondo una confidenza raccolta da Alfred Cortot, un’impressione naturalistica analoga a quella evocata da Wagner nel Mormorio del bosco. Come che sia, la composizione, dedicata significativamente da Fauré al proprio maestro Camille Saint-Saëns, è talmente suggestiva che Marcel Proust se ne servì come ispirazione nel concepire la «petit phrase de Vinteuil» nella Recherche, musica suadentissima che così descrive: «Con un ritmo lento lo dirigeva – prima qui, poi là, poi altrove – verso una felicità nobile, inintelligibile e precisa. E di colpo, al punto in cui era arrivata e da dove [Swann] si apprestava a seguirla, dopo una pausa d’un istante, bruscamente cambiava direzione, e con un movimento nuovo, più rapido, sottile, malinconico, incessante e dolce, lo trascinava con sé verso prospettive ignote». Incardinata nel luminoso Fa diesis maggiore della Barcarola di Chopin, concepita in tre parti che, precisava Fauré, dovranno formare un unico organismo, la composizione, scritta in origine per pianoforte solo ma orchestrata già nell’aprile 1881, s’avvale di tre temi che compaiono dapprima a coppie, i primi due (rispettivamente innocente e introverso, e romantico e agitato), poi il secondo e il terzo, per lasciare il campo nell’ultima parte al solo terzo tema pastorale, mentre solista e orchestra simulano una voliera che chiude in una lieta danza di compiuta felicità espressiva.
Ben altro immaginario risuona nella Settima sinfonia beethoveniana. Umiliata dall’occupazione francese e quindi costretta a un oneroso armistizio, Vienna, patria adottiva di Beethoven, offriva uno spettacolo che il 26 giugno 1809, dieci giorni prima della vittoria di Napoleone a Wagram, Beethoven commentava con queste parole: «Che devastazione e sconquasso attorno a me, nient’altro che tamburi, cannoni, afflizione umana d’ogni genere». Il furore delle armi e le drammatiche difficoltà dei tempi, lungi dal restare ai margini delle composizioni beethoveniane, vi si riversano imperiosamente e impregnano l’invenzione musicale influenzando in misura determinante la qualità della scrittura. Sarebbe impossibile concepire una partitura simile prescindendo dal contesto storico-culturale di un’Europa avviata a completare un secondo decennio di guerre, rivoluzionarie prima e napoleoniche poi: andranno ricondotte al rumore della Storia, meno indirettamente di quanto si potrebbe supporre, la spiccata propensione alla gestualità, le sonorità marziali, l’immagine sonora di un sublime che in quella stagione tanto inquieta non poteva se non assumere il tono d’uno stile eroico. Nacque in quel contesto la Settima sinfonia (si noti, all’avvio del Vivace che finalmente deflagra dopo l’ampia, divagante introduzione, il ruolo propulsivo del ritmo puntato): fragorosa musica di guerra, corroborata dall’ubiquo protagonismo dei fiati, in grado di trasformare il rumore della Storia in pura euforia dionisiaca. Non a caso Wagner lesse questa partitura audace, euforica ed energetica come l’apoteosi della danza: giudizio condivisibile per il ruolo principe che vi assume il ritmo, perfino nel tempo lento, un inconsueto, incantatorio Allegretto, ma che poco aiuta l’ascoltatore odierno, la cui attenzione andrà allertata lungo altri percorsi. Insomma, direbbe Figaro, «invece del fandango, / una marcia per il fango». Andranno infatti piuttosto apprezzati l’andamento da marcia funebre (intesa, come nell’Eroica, quale tributo sommesso alla memoria di un Grande) del severo Allegretto processionale in la minore (capovolgimento del luminoso La maggiore d’impianto), nobilitato dall’inserzione di una doppia fuga; la violenza espressiva dello Scherzo, completato da un doppio Trio dalla solennità degna del Campo di Marte; il carattere inequivocabilmente marziale del Finale. Non sembra casuale che la prima esecuzione della sinfonia, a Vienna, nel salone dell’Università, l’8 dicembre 1813, si accompagnasse a quella d’un altro lavoro beethoveniano minore che avrebbe dovuto rappresentare il cuore di quel concerto di beneficienza per soldati austriaci e bavaresi feriti: La vittoria di Wellington. Cinquanta giorni prima Napoleone era stato sconfitto a Lipsia, avvisaglia che un’epoca feroce si avviava a conclusione, non senza evidenti conseguenze perfino sul paesaggio sonoro del Continente.
Raffaele Mellace