Berio Chemins IV per oboe e 11 archi
Prokof’ev Sinfonietta per piccola orchestra
Schubert Sinfonia n. 4 “Tragica “
Il Cast
Direttore Alessandro Cadario
Oboe Francesco Quaranta
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Prokof’ev Sinfonietta in la maggiore per piccola orchestra op. 5 / 48
Allegro giocoso
Andante
Vivace
Allegro risoluto
Allegro giocoso
Schubert, Sinfonia n. 4 in do minore D. 417 “Tragica ”
Adagio molto – Allegro vivace
Andante
Allegro vivace
Allegro
Elogio della leggerezza
Alla musica oggi in programma parrebbero attagliarsi le parole con cui Italo Calvino definisce, nella prima delle Lezioni americane (Leggerezza), una delle grandi correnti della letteratura di tutti i tempi, quella che «tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici». Credo si comprenderà cosa intendo dire all’attacco di Chemins IV di Luciano Berio, composizione del 1975 che pare ispirata al più radicale puntillismo, appunto un linguaggio – tanto nella parte dell’oboe che in quella degli undici archi – «senza peso», ridotto al «pulviscolo sottile» di note singole o della tela di ragno sottilissima e impalpabile d’una polifonia febbrile. In realtà la composizione ha alle spalle un’intenzione e un progetto compositivo dei più sofisticati e radicali. Rappresenta infatti il “commento” a una composizione preesistente, la Sequenza VII per oboe solo (1969) che funge da “testo” rispetto al quale il nuovo lavoro costituisce il commento, la chiosa, come le note in calce o ai margini della Commedia dantesca. S’invera in quest’opera del Berio maturo la vocazione del compositore di Oneglia per la rielaborazione del materiale sonoro, una riscrittura creativa che prolunga la vita dell’idea compositiva da un lavoro a un altro. Non per nulla la serie degli Chemins, “cammini”, titolo assai significativo del percorso in questione, proseguirà per trent’anni, dal 1965 al 1996. Si tratta, spiega Berio, di «scoprire nuove possibilità e nuove relazioni», adottando il principio del “commentario”. Se «l’amplificazione e lo sviluppo di certi aspetti armonici dei pezzi sono all’origine degli Chemins», in questo caso specifico «le superfici e gli sviluppi armonici in trasformazione continua sono costantemente messi in prospettiva dalla presenza permanente d’un suono – il Si sempre presente – che funziona come un punto di riferimento», già nota perno della Sequenza VII.
La leggerezza è la musa ispiratrice del giovane Prokof’ev nella Sinfonietta, lavoro dalle origini evidenti, dalla collocazione estetica altrettanto chiara e dal destino curioso. L’autore la compose nel 1909 nella casa di famiglia in Ucraina, quando, diciottenne, era ancora studente del Conservatorio di Pietroburgo. Allievo, come Stravinskij e per un periodo Respighi, della prestigiosa classe di composizione di Rimskij-Korsakov, cui tutti e tre dovranno almeno in parte la mano sicura e la fantasia inesausta nell’orchestrazione, Prokof’ev seguì anche le lezioni di direzione d’orchestra di Nikolaj Čerepnin, che gli instillò la venerazione per il classicismo di Haydn e Mozart, al punto che ancora nel 1930 professava di non conoscere «nulla di meglio, di più flessibile e più completo della forma sonata». L’anno prima aveva rivisto per la seconda volta (una prima risaliva al 1914/15) la Sinfonietta giovanile, modificandone l’originario numero di catalogo nel curioso, doppio numero 5/48, a testimonianza delle due distinte stagioni che il lavoro rappresentava. L’esecuzione in una prestigiosa serie di concerti nel 1910 era sembrata al compositore in erba l’avvio stesso della sua carriera, ma in realtà la Sinfonietta, a differenza della Sinfonia n. 1 “Classica” (1917) ascoltata due settimane fa, non decollò mai veramente nei gusti del pubblico, circostanza di cui Prokof’ev non riusciva a capacitarsi, pur attribuendosi parte della colpa per non esser riuscito a realizzare un lavoro della leggerezza cui ambiva, «un pezzo trasparente per piccola orchestra», sul modello, anche nell’articolazione in cinque movimenti, delle serenate mozartiane. Il medesimo, efficace e convincente modello neoclassico à la Haydn governa entrambe le partiture, proponendo nella serenata un’offerta sfaccettata di caratteri diversi. Sarà sufficiente prestare attenzione alla voce, contrastante rispetto al dominante tono giocoso della partitura, che si leva nell’Andante, pagina sinistra e grottesca inaugurata dal registro grave di clarinetti e fagotti, sostenuti dagli archi gravi nella loro eloquenza minacciosa.
Nonostante l’appellativo di “tragica”, anche la Sinfonia n. 4 del giovane Franz Schubert potrebbe aspirare alla categoria della leggerezza. Completata il 27 aprile 1816, all’incirca all’età che aveva Prokof’ev all’epoca della Sinfonietta, ma ascoltata per la prima volta solo postuma nel 1849, andrà letta in termini molto diversi dalla più celebre tra le sinfonie in do minore, la Quinta di Beethoven. Certo, Schubert nutre in questo lavoro l’ambizione del fare grande, dell’architettura distesa, dell’orchestrazione rinforzata (quattro corni, un unicum nel sinfonismo schubertiano); e tuttavia si stenta a prendere davvero sul serio l’aggettivo “tragico”. L’Allegro vivace che segue l’introduzione lenta di matrice haydniana è mosso da un dinamismo genuino ed efficace, senza tuttavia che lo si possa scambiare per inquieto rovello interiore, contraddetto com’è dal delizioso secondo tema cantabile in La bemolle maggiore esposto dai violini su suggerimento di delicate scale discendenti dei legni. Una dolcezza tutta schubertiana spira dall’incantevole Andante, anch’esso in La bemolle maggiore, in un cielo che parrebbe sgombro di nubi, fatto salvo un episodio nel relativo minore. Schiettamente giocoso suona poi il Minuetto, di educata goffaggine, cui il delicato Trio pastorale condotto dagli oboi aggiunge un tocco di bucolica innocenza. Nemmeno la ripresa dell’urgenza espressiva del do minore nel Finale riesce a rinunciare al giocoso tono spensierato del dialogo tra archi e legni che anima il secondo tema, nuovamente in La bemolle maggiore. Costruzione sapiente d’un diciannovenne perfettamente padrone del discorso sinfonico, questa Quarta sinfonia esibisce nell’accorta compensazione di ingrediente diversi un progetto di nitida chiarezza, cui è ancora estranea l’inquietudine che sarà la cifra, quella sì davvero tragica, del compositore maturo.