Le date
Note
Il Teatro è un luogo sicuro: si entra solo con il Green Pass.
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- Per la sicurezza di tutti i presenti, all’ingresso in teatro sarà verificato il possesso del Green Pass e sarà rilevata la temperatura corporea. Non sarà consentito l’accesso alle persone con una temperatura uguale o superiore ai 37,5°.
- Nel foyer del Dal Verme sono presenti distributori di gel disinfettante. È obbligatorio disinfettare le mani prima di entrare in sala.
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- In ogni spazio del teatro gli spettatori devono seguire le indicazioni fornite dalla segnaletica e dal personale di servizio.
Mendelssohn, Sogno di una notte di mezza estate. Suite op. 61
Copland, Appalachian Spring, suite
Ravel, Concerto in sol per pianoforte e orchestra
Biglietteria
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Il Cast
Direttore James Feddeck
Pianoforte Jae Hong Park
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Mendelssohn, Sogno di una notte di mezza estate. Suite op. 61
Intermezzo
Notturno
Scherzo
Copland, Appalachian Spring. Suite
Ravel, Concerto in sol per pianoforte e orchestra
Allegramente
Adagio assai
Presto
Ti racconto una storia
Con il motto Racconti senza parole, la 77a Stagione dei Pomeriggi Musicali ha raccolto la sfida di dar conto dell’aspirazione forse più grande della musica occidentale dal Romanticismo in qua: l’ambizione di far letteratura in proprio, di tradurre la realtà in suoni senza ricorrere alla voce. Poesia senza parole, insomma, resa possibile da una musica strumentale ben consapevole delle proprie formidabili potenzialità. È giusto che questo percorso lungo un anno sia tenuto a battesimo da Felix Mendelssohn – dopo Beethoven e Mozart l’autore più rappresentato nella stagione – che tanta energia profuse in otto raccolte di Lieder ohne Worte, “romanze senza parole” in cui il pianoforte si sostituisce alla voce per raccontare una storia interiore. La prima storia della stagione si avvale d’un narratore d’eccezione, William Shakespeare. È a una commedia del Bardo, A Midsummer Night’s Dream, percepita dai contemporanei di Mendelssohn come un «capolavoro romantico», che il compositore prestò una scrittura musicale straordinariamente congeniale. Appena diciassettenne aveva dedicato a quella stessa commedia un’ouverture, tra le prime manifestazioni della sua personalità; nella piena maturità i rapporti con il re di Prussia Federico Guglielmo IV offrirono l’occasione per l’intera serie delle musiche di scena, per una produzione in scena a Potsdam il 14 ottobre 1843 e il 18 a Berlino. Le pagine sinfoniche in programma compendiano in tre quadri azione e atmosfere della commedia: le tumultuose vicissitudini delle coppie di amanti a conclusione dell’atto II, tradotte nella foga romantica d’un impetuoso Allegro appassionato in la minore, cui offre uno spiccato contrasto l’umoristica irruzione popolaresca dei commedianti (Intermezzo); l’incanto della notte che custodisce nel sonno i personaggi, evocata dal melos del corno, diverso ma non meno autentico volto del romanticismo musicale (Notturno); il mondo delle creature fantastiche su cui si chiude l’atto I, animato dalla frenesia degli elfi, evocato dallo staccato dei legni e dissolto dalla conclusione volage del flauto, che fa svanire nel mondo impalpabile del sogno la visione incantata che la musica, senza parole, aveva materializzato (Scherzo).
Esattamente un secolo più tardi, sull’altra sponda dell’Atlantico Aaron Copland, classe 1900, di Brooklyn, componeva una delle sue partiture più celebrate, cedendo anch’egli alle lusinghe di un’arte scenica sorella: la danza. Le lusinghe della coreografa Martha Graham, che già dal 1941 gli aveva chiesto la musica d’un nuovo balletto, portarono alla “prima” del 30 ottobre 1944 al Coolidge Auditorium della Library of Congress di Washington. È una storia tutta americana quella raccontata da questa musica: la mitologia bonaria e familiare delle vicende d’una giovane coppia di fattori ambientata nel primo Ottocento sui Monti Appalachi, la catena montuosa prospiciente la Costa orientale degli Stati Uniti. Dal balletto Copland confezionò una suite, poi ampliata nell’organico, originariamente cameristico, articolata in otto movimenti senza soluzione di continuità che inanellano, secondo la descrizione dell’autore stesso al debutto della suite, il 4 ottobre 1945 alla Carnegie Hall di New York, la presentazione dei personaggi in una luce soffusa (Very Slowly), l’innesco improvviso dell’azione, la scena di tenerezza e passione tra gli sposi, l’atmosfera popolaresca di danze contadine, l’assolo della sposa che fantastica sulla maternità tra gioia e timore, la rustica vita quotidiana scandita dalle variazioni sulla melodia, esposta al clarinetto, Simple Gifts, composta da Elder Joseph Brackett verso il 1875, infine il ritirarsi della coppia, «serena e forte, nella nuova casa» alla fine della giornata.
Una storia la racconta insospettabilmente anche il Concerto in Sol maggiore di Maurice Ravel, le cui origini andranno fatte risalire al progetto di un’«opera basca per pianoforte e orchestra», maturato nel 1911 durante un viaggio nella Spagna del Nord. Secondo la testimonianza del compagno di viaggio Gustave Samazeuilh, le due pagine veloci di quel lavoro incompiuto sarebbero state riprese vent’anni più tardi, tra il 1929 e il ‘31, nei tempi estremi del concerto, che conserverebbe così la memoria d’un mattino di primavera a Ciboure, località balneare ai piedi dei Pirenei, e d’una festa a Mauléon, cittadina dell’interno, sempre in Nuova Aquitania. Certo, il concerto diventò tutt’altro, un pezzo di musica assoluta, ma questo popolarissimo lavoro della tarda maturità di Ravel andrà inteso anche come sguardo retrospettivo sulla stagione dell’impressionismo musicale, cui tanto la Francia aveva contribuito, ricondotto alla cifra personale d’un neoclassicismo luminoso. In un genere concepito come «leggero e brillante» Ravel si confronta con la tradizione classica (lui stesso evocò i nomi, anzi «lo spirito» di Mozart e Saint-Saëns), di cui ripensò nei tempi estremi la forma sonata. Nella frenesia e vitalità ritmica incontenibile, non distante da un Gershwin, dell’Allegramente iniziale si fa strada, grazie al timbro diafano dell’arpa, un’oasi onirica di pace, in cui il solista indugia tra un fiorire di trilli, prima di riprendere il suo abito percussivo e ritmicamente aggressivo. L’Adagio assai, aperto da un lungo assolo del pianoforte, canto pacato e struggente a ritmo di valzer proveniente da distanze siderali, è voce della nostalgia per una serenità perduta, come quella per la Vienna belle époque evocata pochi anni prima nel poema coreografico La valse. Il concerto si conclude con l’esplosione di un Presto che amplifica il vitalismo del I tempo e ne conferma un riferimento linguistico imprescindibile: i glissandi del trombone e gli ammiccamenti continui ed espliciti richiamano infatti alla scrittura da jazz band, l’altro polo, insieme al classicismo, cui si rifà il linguaggio personalissimo di questo ultimo Ravel.
Raffaele Mellace