Autori vari - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 24 gennaio 2008
Ore: 21:00
sabato 26 gennaio 2008
Ore: 17:00

GUIDA ALL’ASCOLTO
di Paolo Castagnone

«Nell’arte non è affatto vero che, come avviene in campo scientifico o nella vita quotidiana, ogni messaggio deve limitarsi a quanto è necessario» [Carlo Alessandro Landini]

Two More Steps Towards Uncertainty” è stato composto nel 2007 da Carlo Alessandro Landini e dedicato all’Orchestra dei Pomeriggi Musicali, quindi specificamente pensato per le possibilità timbriche e foniche di un ensemble cameristico-sinfonico con l’aggiunta di due percussionisti, i quali svolgono un ruolo preponderante nella partitura. Il titolo, che può tradursi in italiano con “Ancora due passi verso l’incertezza”, si riferisce, nelle intenzioni del vincitore dell’edizione 2007 del prestigioso Concorso “W. Lutoslawski” di Varsavia, alla necessità di «individuare i valori di banda per le due soglie – superiore e inferiore – del riconoscimento di figure musicali ambigue e complesse». Per spiegarsi meglio l’artista milanese aggiunge: «La lingua inglese ha il verbo “to disambiguate” per indicare la volontà di eliminare un certo grado di ambiguità dall’idea di un oggetto qualsiasi. Vi sono, in musica, dei parametri di “complicazione” della partitura, altra cosa dalla più semplice “complessità”, con cui il compositore “maschera” uno o più eventi in primo piano attraverso l’interposizione, l’inserimento, la presentazione allusiva, a volte evidenziati, altre volte appena accennati, di elementi di sfondo capaci di reintegrare il regime notturno dell’incertezza e del dubbio nel fruitore. Credo in un’arte per la quale l’impatto emozionale dell’ascoltatore, o del lettore, o dell’osservatore, sia come sospeso in una zona intermedia fra gli estremi della suggestione emozionale profonda, viscerale per così dire, e l’esaltazione dell’elemento divino che è in noi».
Oltre alla sua ampia e articolata formazione musicale, Carlo Alessandro Landini ha compiuto approfonditi studi sulle basi psicologiche, neurologiche e cognitive della musica presso la University of California a San Diego, grazie al prestigioso “Fulbright Award” assegnatogli nel 1981 dal Ministero per l’Educazione degli U.S.A. Da qui deriva il suo spiccato interesse per questo ambito di ricerca, che lo porta ad affermare: «Le indagini in campo neurobiologico indicano l’esistenza di un circuito neuronale separato, capace di reagire in presenza di vari “gradi di incertezza”. In questo mio nuovo lavoro orchestrale esploro il campo di possibilità che si apre a una circuitazione della decisione e che prescinde dalle consuete categorie del rischio. In altri termini, analizzo i valori di soglia e, con essi, la linea di confine che separa il riconoscimento automatico, per così dire implicito, di un oggetto dalla percezione cosiddetta attentiva, la quale ce lo fa riconoscere solo in séguito a un’attenta osservazione e ad una sequenza di congetture probabilistiche. Esistono delle gerarchie percettive le quali hanno il compito di affrancare lo sguardo, l’ascolto, la lettura dall’ipoteca del dubbio. Il pittore, il poeta, il musicista “giocano” col loro pubblico, essi ne sfidano l’adesione a un senso comune della percezione, che varia a seconda delle latitudini. Esplorare il confine labile che vi è tra percezione e memoria è tra i compiti dell’artista, che si affida al detto ma anche al non detto per esprimersi». In tal senso «esiste un punto che separa l’ovvio dall’ignoto, per il quale la quantità di originalità ottimizzata in vista di un dato scopo si ribalta, generalmente per un eccesso di dati, nel proprio opposto. Quando le serie di dati sono due o più di due si ha, allora, l’ambiguità. A mio parere, lo scopo del compositore è quello di facilitare l’instaurarsi di un’incertezza protratta in virtù della quale sempre più arduo divenga prendere una decisione in merito al posto da assegnarsi a gesti musicali e a figure sonore il cui profilo non trova posto nelle consuete categorie del Bello». Quale riconoscimento per la sua attività di ricerca, Landini è stato nominato, nel 2002, Honorary member dell’esclusiva AAAS (American Association for the Advancement of Science).

«L’arte di Dvořák non va discussa, come non si discute la primavera: la si ammira e si gioisce della sua bellezza». [L. Ehlert]

La trionfale accoglienza delle Danze slave op.46 rese Antonin Dvořák immensamente celebre presso il grande pubblico. Ciò procurò al trentasettenne musicista un lucroso contratto con l’editore Simrock di Berlino e la possibilità di abbandonare il proprio incarico di organista presso la Cattedrale di Praga, concentrandosi finalmente sulla composizione. Tra i primi frutti di questa nuova fase professionale si annovera il Concerto per violino, scritto fra il 1879 e il 1882 e dedicato al celebre violinista Joseph Joachim per gli utili consigli che gli diede nella fase di revisione della partitura.
Le parte solistica del concerto rivela una notevole maestria, facilmente spiegabile vista la notevole familiarità del musicista céco con gli strumenti ad arco, avendone intrapreso lo studio ancor fanciullo ed essendosi guadagnato da vivere fino ai trent’anni suonando come violinista e violista nelle orchestre di Praga. Da questa esperienza deriva anche la sua finezza di orchestratore, che in questo lavoro sfrutta appieno le possibilità sonore offerte da coppie di legni, quattro corni, due trombe, timpani e archi.
L’apertura della partitura manifesta immediatamente quella “gioia del far musica” tipicamente slava, che dà vita a un primo movimento essenzialmente preludiante, con la sua libera forma rapsodica fluttuante sulle due idee iniziali, proposte dall’orchestra e dal protagonista. Lo strumento solista vi è trattato con estro improvvisatore, oscillando fra momenti di carattere assai brillante e oasi di tenero lirismo, sfruttando appieno il contrasto timbrico ottenuto col repentino passaggio dal registro acuto a quello grave. L’eloquio sempre vivo e fluente conduce senza soluzione di continuità all’«Adagio ma non troppo», cuore dell’intera opera. Esso è, per la maggior parte, di una calma espressività, col violino che intona la melodia o la fiorisce di graziosi arabeschi ma, come molti altri movimenti lenti di Dvořák, raggiunge nella sezione centrale accenti di grande intensità, mettendo in luce la duplice matrice espressiva dell’autore della Sinfonia “Dal nuovo mondo”, quella spontanea di tante pagine di solare eloquenza e quella più nascostamente riflessiva dei brani sacri
Esempio lampante della maestria compositiva del musicista è la libertà con cui costruisce l’«Allegro giocoso» finale, impostato nella luminosa tonalità di la maggiore e basato sui ritmi contrastanti di due danze popolari, il furiant e la dumka, ch’è richiamata prima di una brillante coda accesa dai guizzi virtuosistici del solista. Ogni frase fa trasparire le migliori caratteristiche dell’artista: la sua perfetta e naturale assimilazione del linguaggio classico e l’innata musicalità, nutrita mirabilmente da mille suggestioni popolari. E’ la felice situazione di un artista in possesso di una tecnica raffinatissima, ma allo stesso tempo ingenuo come può esserlo il figlio di una nazione musicalmente ancor giovane.

«Ricevete dalle mani di Haydn lo spirito di Mozart» [l’amico Waldstein a Beethoven prima della sua definitiva partenza per Vienna]

I primi schizzi beethoveniani per la Seconda Sinfonia risalgono al 1800, ma la gestazione fu complessa e il lavoro vide la conclusione solo nell’autunno del 1802. Dedicata al conte Moritz von Lichnowsky, uno degli amici e sostenitori più fedeli, la partitura venne presentata al pubblico il 5 aprile 1803 nel corso di un’«accademia» ovvero un concerto a sottoscrizione, che comprendeva anche la prima esecuzione del Terzo Concerto per pianoforte e dell’oratorio Cristo sul monte degli ulivi.
I tratti inquieti e visionari di un artista in piena maturazione, a un passo dalla svolta epocale dell’“Eroica”, imprimono al lavoro il carattere di un “gioco pericoloso”, fra prudenza e sfida, coi canoni del sinfonismo classico. E’ soprattutto la “forma sonata” – descrivibile in superficie come la vicenda di due temi, presentati nell’Esposizione, messi a confronto nello Sviluppo, pacificati nella Ripresa – a caricarsi di un dualismo del tutto inusitato, che vede impegnati non solo il carattere e lo stile, ma anche le emozioni e il senso della vita. Le tensioni linguistiche entrano qui in aperto conflitto e, non a caso, Beethoven privilegia la sezione centrale col suo esplosivo contrasto tematico. Se ne accorse immediatamente il critico passatista Giuseppe Carpani, che affermò: «La natura gli ha dato dei doni che all’Haydn e al Mozart soli sembrava aver riservato. Ma vorrà egli porre un freno alla sua fantasia? Vorrà anteporre la bellezza alla singolarità? Vorrà cessare di essere il Kant della musica?».
Per nostra fortuna il giovane musicista non lo volle ascoltare e già l’insolita ampiezza dell’«Adagio molto» introduttivo – seppure si appoggi all’illustre precedente della Sinfonia “Praga” di Mozart – è un indizio di profondo cambiamento; ma ancor più lo sono gli ampi vortici disegnati dai diversi strumenti e la frantumazione di alcuni elementi tematici, che delineano un trattamento orchestrale davvero inedito. Il successivo «Allegro con brio» presenta temi lapidari, che vanno diretti a un preciso scopo espressivo e cercano, a grandi e vigorose campiture, una comunicativa immediata: in particolare il piglio militaresco della seconda idea motivica ha un’impronta inconfondibilmente beethoveniana e fa pensare alle fanfare di fiati della Rivoluzione francese e agli stilemi di un compositore ch’egli ammirava sommamente, Cherubini.
Il «Larghetto» è ricco di movenze liriche e di una cantabilità quasi pre-romantica, ma anche di duri contrasti dinamici, intensificati da effetti timbrici e da impasti sonori che aprono una nuova epoca nella scrittura orchestrale. Dell’antica struttura del Minuetto il movimento successivo non conserva più nemmeno il nome e, d’ora in poi – con la sola eccezione dell’Ottava – l’uso dello «Scherzo» sarà normale in Beethoven. Si tratta di un pezzo di carattere lieto, quasi un gioco a incastro fra semplici ma efficaci “blocchi” strumentali, in cui solo il “Trio” richiama ancora alla memoria qualche movenza haydniana.
L’«Allegro molto» conclusivo attacca con un’inattesa impennata per distendersi però ben presto con l’entrata del secondo tema cantabile e sereno, corteggiando con garbo la forma del Rondò e concludendo con serena luminosità una partitura che paradossalmente fu terminata in un periodo di disperazione. Proprio in quei mesi si manifestavano sempre più evidenti i problemi all’udito e, da quasi due anni il giovane musicista tedesco evitava i ritrovi sociali «poiché non posso andare a dire alla gente : sono sordo!». Tuttavia l’arte non sempre insegue le esigenze della cronaca e l’autore della Seconda sinfonia si presenta pieno di giovanile e irresistibile energia, tanto che Camille Bellaigue parlò con molta finezza dell’op.36 come di una «eroica menzogna» e la musica, come la vita, finge talvolta di stare al gioco.

Il Cast

Direttore: Nicholas Carthy
Violino: Marco Rizzi
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali