Francesco Antonioni (1971)
Bouquet (prima esecuzione assoluta, commissione dei Pomeriggi Musicali)
Richard Strauss (1864 – 1949)
Burlesca in Re minore per pianoforte e orchestra
Max Reger (1873 – 1916)
Variazioni e fuga su un tema di Mozart op. 132
direttore Alessandro Cadario
pianoforte Antonio Alessandri
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Biglietteria
Ingresso gratuito
Note di sala
Le pagine in programma condividono una caratteristica: “giocano” con oggetti musicali, che compongono e ricompongono, smontano e rimontano con l’atteggiamento ludico proprio dell’arte. Un gioco che è al contempo conoscenza, mezzo per approfondire natura e qualità dello spirito umano. Apre il concerto un’ulteriore novità dedicata agli 80 anni dei Pomeriggi Musicali. Il titolo, Bouquet, fa esplicito riferimento, quasi fosse un omaggio floreale, all’occasione da cui deriva la commissione. E tuttavia, Bouquet non intende ridursi esclusivamente a una brillante, festiva ouverture da concerto concepita come pezzo d’occasione; comporta comunque una ricerca, ha il gusto della sperimentazione. Il riferimento compositivo è al Messiaen del Catalogue d’oiseaux: consiste nella scelta d’una serie di oggetti sonori, idealmente i fiori del bouquet. Tali fiori virtuali vengono presentati separatamente e poi riproposti, arrangiati, come farebbe un fioraio, in un bouquet. Nel comporre questa “natura morta”, viva e festiva, il compositore persegue un ideale di chiarezza, mira a esprimersi nei termini più concisi ed efficaci. Per Antonioni è compito del compositore mettere in atto lo sguardo più “lungo” e “profondo” possibile sull’oggetto che sta prendendo in considerazione (Gli occhi che si fermano, s’intitola un suo lavoro). La musica potrà allora accreditarsi come strumento formidabile per conoscere il mondo in profondità. Autore di questa novità è appunto Francesco Antonioni, classe 1971. Allievo di Azio Corghi e George Benjamin, pubblicato da Ricordi, attivo alla radio e in televisione ma in anni recenti sempre più concentrato sulla composizione, Antonioni è di casa alla Wigmore Hall di Londra, a MiTo come alla Biennale di Venezia. Lo scorso anno è uscito il cd monografico My River, in cui è anche direttore, accanto a Vladimir Aškenazi. Ha collaborato con compagini di assoluto spicco come l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, e con interpreti di rilievo, da Antonio Pappano a Beatrice Rana. Versato in ogni genere della musica d’arte, spesso in collaborazione con coreografi e compagnie di danza, ricerca nelle proprie composizioni un punto d’incontro, un’occasione di integrazione tra diversi linguaggi.
Anche la Burlesca di Richard Strauss consiste nel gioco, sofisticato, tra due oggetti sonori: il pianoforte e l’orchestra. O meglio, per dirla con Piero Rattalino, un’orchestra e un pianoforte «pensato come un’altra orchestra». Per quello che rimarrà per decenni l’ultimo lavoro concertante del compositore tedesco, il giovanissimo (poco più che ventenne) Strauss scelse infatti una strada impervia e originalissima, cui probabilmente si deve buona parte della modesta fortuna esecutiva, nonostante sia appartenuto al repertorio di molti grandi (Argerich, Arrau, Barenboim, Gould, Magaloff, Richter), di questo pezzo di grande personalità: una formula distante anni luce dal concerto “da virtuosi” che vede l’orchestra meramente funzionale alla piena evidenza del solista. Il principio che regge questo lavoro del 1885/86 è piuttosto il contrasto esacerbato da una compagine sinfonica agguerrita e un unico strumento: scontro in cui, per prendere a prestito le parole di Čajkovskij a proposito del proprio Secondo Concerto, ascoltato un mese fa, «alla potenza e all’infinita varietà di colori dell’orchestra tien testa questo avversario minuscolo, inverosimile ma risoluto, che uscirà vincitore se il pianista è effettivamente dotato». I due oggetti sonori danno così vita a un paesaggio continuamente cangiante, tra aspri contrasti e scelte personalissime, in un clima espressivo che pare anticipare il grottesco di Till Eulenspiegel. Prima fra queste scelte è l’esordio affidato, come anche la conclusione, ai timpani, come soltanto Beethoven aveva osato fare ad apertura del Concerto per violino, i quali propongono in nuce quello che si rivelerà il secondo tema d’una peraltro regolare forma sonata, ad onta d’un linguaggio spesso lisztiano. Pianista di vaglia lui stesso (aveva già eseguito il Concerto K491 di Mozart, in cartellone nella nostra stagione all’inizio di quest’anno), Strauss concepì questo lavoro con in mente un interprete formidabile, il proprio mentore Hans von Bülow, di cui in quel periodo era assistente all’orchestra di Corte di Meiningen. Ricusata dal maestro, la composizione venne finalmente presentata da Eugen d’Albert, pianista ma anche apprezzato operista, il 21 giugno 1890 nella patria di Bach, Eisenach, nella serata che vide anche la prima esecuzione del poema sinfonico Morte e trasfigurazione: Strauss era già entrato nella fase della grande esplosione sinfonica, cui il gioco di questo precocissimo, geniale ventenne con i suoi incandescenti oggetti sonori, funge da promettente preludio.
L’oggetto sonoro scelto da Max Reger, compositore tedesco di orientamento stilistico classicista benché pressoché coetaneo di Schönberg, è un tema concepito da un autore a lui carissimo: Mozart. Si tratta in particolare del tema del tempo d’apertura della Sonata per pianoforte n. 11 in La maggiore K331 (300i), composta forse a Vienna nei primi anni Ottanta del Settecento: tema, ispirato a un canto popolare della Germania meridionale, già predisposto da Mozart nella collocazione originaria come base d’una serie di sei variazioni. Reger – di cui abbiamo potuto apprezzare, nel raro dittico d’una coppia di suoi lavori tra i più importanti, il monumentale Concerto per violino, appena due settimane fa – lo riprende nell’estrema maturità, in quel 1914 che lo separerà d’un solo biennio dalla morte precoce, a 43 anni, per un infarto. La composizione rinnova la fedeltà dell’autore a un genere, il tema con variazioni, di cui aveva già dato ampia prova – come peraltro avevano fatto prima di lui Bach, Beethoven e Brahms, suoi riferimenti supremi – sia in ambito cameristico che sinfonico, attingendo a Bach, Beethoven, Telemann. Intestato Andante grazioso, il tema attraversa otto variazioni che permettono all’orchestra di esibire una meravigliosa varietà di atteggiamenti espressivi in cui il dialogo, a un secolo e mezzo di distanza, tra l’autore antico e il moderno, il salisburghese e il bavarese, esibisce una tensione gravida di valori estetici originali. Corona le otto variazioni una posata doppia fuga (Allegretto grazioso), che esibisce la vocazione contrappuntistica di Reger, in un discorso che, superando lo stesso Mozart, tende la mano a Bach, esaltando la vocazione di questo appartato maestro del Novecento incipiente a un pensiero estetico ispirato a chiarezza cristallina.
Raffaele Mellace