Direttore: Alessandro Cadario, Pianoforte: Pietro De Maria - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 18 aprile 2024
Ore: 10:00*
giovedì 18 aprile 2024
Ore: 20:00
sabato 20 aprile 2024
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra op. 73 “Imperatore”

Franz Schubert (1797 – 1828)
Sinfonia n. 1 in Re maggiore D82

direttore Alessandro Cadario
pianoforte Pietro De Maria
Orchestra I Pomeriggi Musicali

 

Dittico viennese
Musica composta tra il 1809 e il 1813: ne sono autori due musicisti che si trovano agli antipodi rispetto al percorso biografico e artistico: la loro musica, benché perfettamente coeva, ci parla con una lingua e uno spirito profondamenti diversi. L’impegno pubblico del Beethoven maturo all’apice della fama e le candide speranze d’uno Schubert adolescente formano un dittico che restituisce il quadro complesso di una civiltà musicale che rappresentò un riferimento per tutto il Romanticismo e oltre.

Biglietteria

Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (fino a 26 anni, oltre i 60 anni, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita

Note di sala

La musica in programma proviene da Vienna, non in senso generico, ma da un torno d’anni preciso e contenuto: quattro appena, essendo stata composta tra il 1809 e il 1813. Ne sono autori due musicisti che si trovano agli antipodi rispetto al percorso biografico e artistico, e la loro musica, benché perfettamente coeva, ci parla con una lingua e uno spirito profondamente diversi. L’impegno pubblico del Beethoven maturo all’apice della fama e le candide speranze d’uno Schubert adolescente formano un dittico di splendida bellezza e grande fascino che restituisce il quadro complesso di una civiltà musicale che non per nulla rappresentò un riferimento per tutto il romanticismo e oltre.
La composizione beethoveniana in programma appartiene al cosiddetto “stile eroico”; si riferisce cioè a quella scrittura musicale elaborata dal compositore maturo, la cui complessità, notevolissima, si presta alla perfezione a comunicare al pubblico un contenuto ideale incandescente che raggiunge l’ascoltatore senza mediazioni e lo coinvolge con un’eloquenza senza parole, ma proprio per questo tanto più efficace. Dei tre capisaldi del Beethoven orchestrale – sinfonia, concerto e ouverture – ascolteremo l’ultimo dei cinque concerti per pianoforte, composto nel 1809. Umiliata dall’occupazione francese seguita alla sconfitta della Quinta Coalizione, e quindi costretta a un oneroso armistizio, la capitale asburgica offriva uno spettacolo che il 26 giugno 1809, dieci giorni prima della vittoria di Napoleone a Wagram, Beethoven commentava con queste parole: «Che devastazione e sconquasso attorno a me, nient’altro che tamburi, cannoni, afflizione umana d’ogni genere». Il furore delle armi e le drammatiche difficoltà dei tempi, lungi dal restare ai margini delle composizioni beethoveniane, vi si riversano imperiosamente, impregnano l’invenzione musicale influenzando in misura determinante la qualità della scrittura. Sarebbe impossibile concepire una partitura simile prescindendo dal contesto storico-culturale di un’Europa avviata a completare il secondo decennio di guerre, rivoluzionarie prima e napoleoniche poi: andranno ricondotte al rumore della Storia, meno indirettamente di quanto si potrebbe supporre, la spiccata propensione alla gestualità, le sonorità marziali, l’immagine sonora di un sublime che in quella stagione tanto inquieta non poteva se non assumere il tono d’uno stile eroico.
Nacque in quel contesto il Grand Concerto per le Pianoforte, uscito a stampa con questo titolo, generico ma al contempo significativo (quello d’“Imperatore” è invece spurio), e con una dedica altrettanto significativa al giovane arciduca Rodolfo, ultimogenito dell’imperatore Leopoldo II, talentuoso pianista allievo di Beethoven e suo generoso mecenate (promosse e finanziò in quello stesso 1809 l’istituzione d’una rendita annuale che rendeva il compositore indipendente, onde evitare che lasciasse Vienna, sedotto dal richiamo del fratello di Napoleone, Girolamo Bonaparte, insediato come re di Vestfalia, che voleva il compositore maestro di cappella a Kassel), nonché futuro committente della Missa solemnis. Come avverrà per la Settima sinfonia, nata da una medesima ispirazione, il Concerto coniuga fervore marziale e novità formale, sin dal magniloquente gesto inaugurale: l’accordo e l’arpeggio con cui rispettivamente l’orchestra e il pianoforte stabiliscono la tonalità di Mi bemolle maggiore (quella della Sinfonia “Eroica”). Partitura monumentale e ultimo concerto per qualsiasi strumento cui Beethoven mise mano, ospita in una struttura formale solidissima tanto un lessico tematico di sapore militaresco (ritmi di marcia, terzine che simulano rulli di tamburo) quanto, all’opposto, frequenti indugi pseudo improvvisatori di toccante poesia, affidando l’uno e gli altri a un virtuosismo pianistico, forse concepito con in mente le doti dell’allievo Carl Czerny, che nel 1812 ne interpretò la prima esecuzione pubblica viennese (un’anteprima l’aveva disimpegnata il 13 gennaio 1811 lo stesso dedicatario in un concerto privato a Palais Lobkowitz). Il severo lirismo interiorizzato imposto dall’orchestra all’Adagio un poco mosso e la contrapposta energia che anima il fragoroso Rondò conclusivo, percorso da figurazioni ritmiche inesorabilmente propulsive, completano, dopo le quasi 600 battute del colossale Allegro d’apertura, il compiuto respiro ternario di un organismo profondamente sinfonico in cui il solista (che siede ormai di necessità a un pianoforte moderno) e l’orchestra sperimentano da pari la dialettica di una reciproca esaltazione.
Stessa città, quattro anni più tardi. L’altra composizione in programma ci riporta però a dinamiche private, «in più spirabil aere», per dirla con il Manzoni del Cinque maggio. È la musica di un congedo che sa di acquisizione di una prima maturità: quello consumato da un Franz Schubert sedicenne dal collegio dove aveva compiuto la propria istruzione. Il 28 ottobre 1813 – poche settimane dopo la decisiva sconfitta di Napoleone a Lipsia e la nascita di Giuseppe Verdi – il giovanissimo maestro termina infatti la sua prima, ambiziosa sinfonia, in Re maggiore come sarà anche la Terza, ascoltata recentemente nel concerto del 4/6 aprile, nutrita di cultura haydniana e mozartiana, un’eredità ben esemplificata dal complesso Allegro vivace, che, dopo un breve Adagio introduttivo, sufficiente ad alimentare con intelligenza l’aspettativa di cioè che verrà e riproposto in seguito con scelta irrituale, coniuga l’urgenza e l’energia del brillante primo tema con la suadentissima cantabilità del secondo, o dal Minuetto, a un tempo aulico e arioso. Risuona peraltro ben chiara anche la personalità inconfondibile del talento in erba: l’incanto idillico dell’Andante in 6/8, caratterizzato dall’oscillazione tra modo maggiore e minore, anticipa la struggente aspirazione alla serenità che risuonerà quattordici anni dopo, a pochi mesi dalla morte, nel Lied Frühlingstraum (“Sogno di primavera”) nell’estremo capolavoro della Winterreise, quasi sguardo retrospettivo e inconscio a un’adolescenza prodigiosa.

Raffaele Mellace