Wolfgang Amadeus Mozart (1756 – 1791)
Sinfonia concertante in Mi bemolle maggiore K364
Arnold Schönberg (1874 – 1951)
Kammersymphonie n. 2 op. 38
Darius Milhaud (1892 – 1974)
Le beouf sur le toit op. 58
direttore Beatrice Venezi
violino Alessandro Milani
viola Luca Ranieri
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Musica in viaggio La musica oggi in programma sarebbe inconcepibile senza la dimensione del viaggio, poiché ispirata a civiltà musicali lontane oppure composta in stazioni remote del percorso biografico (e geografico) dell’autore. Scritta probabilmente a Salisburgo nell’estate 1779, la singolare Sinfonia concertante per violino e viola K364 (320d) rappresenta un unicum nel catalogo mozartiano. La Concertante per violino, viola e violoncello Anh. 104 (320e), intrapresa subito dopo, si arresta infatti a un abbozzo del primo movimento, mentre quella per fiati è stata plausibilmente realizzata da altra mano su appunti mozartiani. Il titolo in programma è dunque un capolavoro isolato che fa tesoro del viaggio dell’anno prima a Parigi, città che nelle sale del Concert spirituel e di quello de la Loge Olympique ospitava da qualche anno un nuovo genere particolarmente spettacolare, consistente in un duello avvincente, di norma tra due violini ma senza preclusioni per altri strumenti, amplificato dall’orchestra. Insomma, un doppio concerto di carattere estroverso, edonistico, di facile ascolto, spesso nell’agile struttura in due tempi veloci. Alla produzione dei vari Garnier, Solère, Davaux, dell’italiano Viotti, ma anche di Johann Christian Bach e Haydn, Mozart contribuisce con un lavoro dalle caratteristiche uniche, destinato a due strumenti prediletti e suonati in prima persona. La piacevolezza del genere è sublimata secondo una superiore intenzione artistica nel linguaggio maturo del classicismo viennese, nell’articolazione classica del concerto in tre tempi e in un formato imponente, sin dal primo movimento. L’ampio Allegro maestoso (l’avvio marziale sa di ouverture operistica) è infatti caratterizzato da pienezza sinfonica già dall’introduzione orchestrale (memore della compagine conosciuta a Mannheim), nella bellezza e nella generosità dell’invenzione melodica (qui i motivi sono ben più dei due canonici della forma sonata) e nella cantabilità dei due strumenti solisti. Questi ultimi sono impegnati, in sostanziale autonomia rispetto all’orchestra, in un affascinante dialogo serrato, complice e paritetico, lontano da qualsiasi virtuosismo fine a se stesso. Tonalità d’impianto è il solenne Mi bemolle maggiore dell’ultimo capolavoro operistico mozartiano, il Flauto magico. La parte della viola è scritta in realtà in Re maggiore, grazie all’espediente della scordatura d’un semitono che conferisce maggior brillantezza allo strumento e lo isola dalle viole in orchestra, rendendo al contempo più agevole l’esecuzione. L’Andante offre un percorso alternativo nella tonalità relativa di Do minore, introverso e ricco di chiaroscuri, tra plaghe malinconiche e improvvise illuminazioni. Il Presto conclusivo corona la composizione a ritmo d’una giocosa contraddanza, approssimandosi più degli altri due tempi alla vocazione brillante del genere.
In termini personali, la Kammersymphonie n. 2 op. 38 rappresentò invece per il suo autore, Arnold Schönberg, il diario delle crisi di una parabola artistica. Infinitamente meno nota della n. 1 op. 9, una svolta all’altezza del 1906, era stata iniziata a ridosso di quella, nell’agosto 1906, abbandonata, ripresa a intervalli irregolari (nel 1907, ’11, ’16) e messa in un cassetto dopo la Grande guerra. Lasciata l’Austria su cui andava proiettandosi l’ombra del nazismo e riparato negli Stati Uniti, il compositore ricevette nell’agosto 1939 l’impulso a riprendere in mano la partitura (completò il primo movimento, compose metà del secondo, rivide e riorchestrò tutto) da Fritz Stiedry, direttore musicale dei New Friends of Music di New York, città in cui la composizione debuttò il 15 dicembre 1940, a oltre trent’anni dall’avvio. Terzo degli opp. 36-39 che Schönberg compose nei tardi anni Trenta in America, il titolo trae in inganno: i 17 strumenti (il secondo oboe suona anche il corno inglese) imbastiscono un discorso sinfonico che Schönberg limiterà ai due tempi originari, malgrado la tentazione di aggiungervene un terzo. Dal punto di vista linguistico, la partitura, iniziata all’alba del periodo atonale, approda, oltre la fase dodecafonica, a un neoclassicismo che recupera la tonalità, offrendo all’ascoltatore una sinopia di chiara leggibilità. Inaugurato dall’elegia del flauto, il discorso acquista man mano respiro, si fa serrato, drammatico, persino romanzesco, si muove attraverso paesaggi sonori molto diversi, fino a culminare, attraverso una fase conflittuale, a un finale quasi teatrale, sotto il segno d’una tragicità severa: un tono di fondo che pare alludere, al di sotto della bellezza della scrittura orchestrale, a un dissidio interiore irrisolto che, in termini diversi, accompagnò le varie fasi della composizione.
L’aria ritorna serena con il balletto Le boeuf sur le toit, che Darius Milhaud offrì al giudizio del pubblico parigino al Théâtre des Champs-Élysées il 21 febbraio 1920, anno aperto dalla comparsa dell’etichetta “Six Français” con cui il critico Henri Collet battezzò un manipolo di compositori cui faceva capo lo stesso Milhaud (benché Jean Cocteau eccepisse che «era stata presa per una scuola quella che in realtà era solo l’intervallo»). La musica dei Six, illuminati dall’«esempio meraviglioso» (così Milhaud) di Erik Satie, mostra in questo balletto tutta l’irriverenza e la modernità di un’estetica da music-hall: linearità d’una scrittura chiara e distinta, sovrapposizioni di motivi in un contesto politonale, eloquio arguto, leggero, brillante, innata qualità narrativa. Ispirata nel titolo (diverrà, sulla scorta del balletto di Milhaud, il nome d’un bar parigino frequentato da Ravel e Picasso) a una bizzarra insegna di negozio vista dal compositore nel biennio 1917-18 trascorso in Brasile come incaricato dell’ambasciata francese, la composizione importa a Parigi la carica dirompente della musica sudamericana, restituita non nella malinconia delle serie coeve di Saudades do Brasil, bensì in termini estroversi, come in un gran carnevale attraversato da ritmi di conga, samba, tango, rumba, fado, unificati in un colossale rondò dal brillante tema ricorrente sincopato esposto in apertura. Il soggetto del balletto, sovrapposto dallo stesso Cocteau alla partitura già pronta, ambienta l’azione in un bar statunitense all’epoca del proibizionismo popolato da un’accozzaglia surrealista di avventori, con un finale che fa la parodia della Salome di Wilde/Strauss. Milhaud peraltro guardava ancora più avanti: la partitura, sosteneva, sarebbe stata perfetta come colonna sonora d’un film di Charlie Chaplin. E nulla ci vieta di ascoltarla così.
Raffaele Mellace