Wolfgang Amadeus Mozart (1756- 1791)
Ouverture da “Le Nozze di Figaro”
Concerto n. 22 in Mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra K482
Concerto n. 24 in Do minore per pianoforte e orchestra K491
direttore e pianoforte Alexander Lonquich
Orchestra I Pomeriggi Musicali
I concerti per pianoforte e orchestra di Mozart possono essere intesi come altrettanti autoritratti dell’autore, alla tastiera, come amava posare sin da fanciullo, e con un foglio di pentagramma sul leggio. Come preludio l’Ouverture che apre il trittico delle opere scritte su libretto di Lorenzo Da Ponte. Al pianoforte e alla concertazione un musicista che si è importo da decenni come modello di artista e intellettuale al tempo stesso.
Biglietteria
Intero € 15,00 – Ridotto Under 25 / Over 60 € 10,00
Note di sala
Cos’hanno in comune le tre composizioni mozartiane in programma? Il termine di approdo, una stessa città e una stessa stagione: Vienna e la primavera 1786. Fu da un’unica, serrata vicenda creativa che frutti tanto diversi vennero a maturazione nel meraviglioso inverno che preparò l’ultima stagione di piena e felice sintonia tra Mozart e il pubblico viennese. Il compositore, trentenne proprio in quei mesi, scrisse infatti i due concerti, legati da uno stretto rapporto tonale (Do è la relativa minore di Mi bemolle), per le consuete rassegne di concerti pubblici che lo vedevano sedere al pianoforte: il k482, pronto il 16 dicembre 1785, fu probabilmente eseguito già il 23 di quel mese; il k491, ultimato il 24 marzo successivo, venne presentato il 3 aprile; il 1° maggio, infine, avvenne lo storico debutto delle Nozze di Figaro.
Il programma è aperto dall’Ouverture delle Nozze di Figaro, scritta nella tonalità luminosa e solenne di Re maggiore; Mozart l’ideò come portale d’ingresso alla folle journée di un’opera concepita col librettista Lorenzo Da Ponte come «un quasi nuovo genere di spettacolo», in cui la musica orchestra a un ritmo mozzafiato un potenziale emotivo debordante, tradotto in azione scenica inquieta e concitata, ricca di suspense e colpi di scena. L’orchestra l’annuncia senza equivoci con l’avvio di originalità assoluta con cui archi e fagotti salgono sornioni con un ronzio impercettibile dal registro grave, dissimulando l’impreparato deflagrare a orchestra piena: primo coup de théâtre che preannuncia una pagina fortemente coesa, brulicante di idee tematiche (non meno di quattro fondamentali), condotta tra continue sferzate d’energia.
Con l’entrata in scena del pianoforte, strumento in cui il Saliburghese troverà a Vienna il compagno privilegiato, ci confrontiamo con un genere che rappresenta forse la sintesi più compiuta del pensiero strumentale mozartiano. Dei 17 concerti scritti in un decennio per la città che Mozart definiva «il regno del pianoforte», il k482, benché storicamente in repertorio di pianisti come Busoni e Saint-Saëns, è tra quelli di ascolto più raro. Prima ancora di venire al pianoforte occorre segnalare una scelta macroscopica del Mozart compositore: il ruolo straordinario attribuito ai fiati (4 coppie + 1), che si aggiudicano ad esempio l’esposizione in piena autonomia – quasi fossero uno di quei complessi di Harmonie che si esibivano all’epoca nei chioschi dei parchi viennesi – del secondo tema dell’Andante: movimento tanto efficace che al debutto Mozart fu costretto a concederne il bis integrale. Sempre in tema di fiati va notata l’introduzione per la prima volta in un concerto, in sostituzione degli oboi, dei clarinetti, voce carissima alla tarda maturità del compositore e fondamentale nello stabilire il timbro di questo lavoro. Se il primo tempo ci accoglie all’insegna d’una solennità cordiale, perfettamente intonato a non poche pagine delle Nozze di Figaro e arricchito dalla complessità di un’avvincente sezione di sviluppo, il secondo, che anticipa il Do minore del Concerto k491, si presenta introverso, dolente, interiorizzato. L’orchestra ne stabilisce il clima, un paesaggio senza melos su cui si staglia quasi antropomorfica la figura del pianoforte, con un’entrata parlante che prelude a un discorso delicato, in cui la trama pianistica interagisce con una scrittura orchestrale in punta di piedi, quasi l’accompagnamento discreto della voce umana d’una pagina operistica. Il Rondò finale ripristina quel tono giocoso tipicamente mozartiano non distante dal coevo Concerto per corno K495, anch’esso in Mi bemolle maggiore. Nella stessa tonalità era anche il memorabile Concerto per pianoforte K271 “Jeunhomme” di cinque anni prima, di cui questo concerto condivide anche la scelta di introdurre inopinatamente un movimento lento all’interno del terzo movimento, l’enclave estatica d’un Andantino cantabile in metro contrastante (3/4) anch’esso affidato alla Harmonie dei fiati, che spiazza l’orizzonte d’attesa dell’ascoltatore e conferisce al discorso un’inedita ampiezza di respiro.
Con il Concerto K491, compiuto il 24 marzo 1786, a cinque settimane dal debutto delle Nozze di Figaro al Teatro di Corte (dove questo concerto venne eseguito il 7 aprile), Mozart ritorna al modo minore, del tutto inconsueto nei suoi concerti per pianoforte, sperimentato un anno prima nel memorabile k466. Non è possibile mettere in discussione lo status di capolavoro assoluto di questo nuovo lavoro, riccamente strumentato (cinque coppie tra legni e ottoni, con oboi e clarinetti, corni e trombe, flauto e i timpani), nella tonalità non particolarmente mozartiana (ma di lì a poco intimamente beethoveniana) di Do minore, dalla cui materia cupa, che parrebbe ispirata a fatale, claustrofobico determinismo, Mozart estrae un’invenzione tra le più inquiete del Settecento declinante, connotata da un’espressività debordante, che potremo ritrovare, nel catalogo della somma maturità, solo nel Don Giovanni dell’anno successivo o, un anno ancora più tardi, nella penultima sinfonia, incardinati rispettivamente in Re e Sol minore. Un’autentica «discesa all’Erebo», per far nostra la suggestione classicista di Giovanni Carli Ballola, che inizia dall’invenzione tematica del primo movimento, inaugurato dall’orchestra con un profilo che liquida qualsiasi classica compostezza in una sequenza di intervalli dolenti, di gesti lancinanti e sospesi, per salti audaci: un tema, insomma, dal profilo profondamente personale, incardinato in un inconsueto metro ternario. L’Allegro s’addentra, complice un pianoforte quanto mai parlante, nel tunnel d’una drammaticità parossistica, culminante nell’agonismo dello sviluppo. A tanta violenza espressiva segue il puro incanto del Larghetto, capolavoro nel capolavoro che prende in prestito il Mi bemolle maggiore d’impianto del Concerto k482, già comparso nel primo movimento, proponendo in apertura la voce del pianoforte, che intona la sua melopea ingenua e fascinosa, di quel lirismo purissimo che è trademark inconfondibile dell’ultimo Mozart. E pare di vederlo, Wolfgang, seduto al pianoforte, prodigare, secondo la testimonianza Franz Xaver Niemetschek, «l’arte del sentimento che emanava dal gioco delle sue dita, penetrando irresistibilmente fino al cuore degli spettatori». Di questo Larghetto, attesta la «Wiener Zeitung», venne richiesto il bis a gran voce. Il cielo si richiude tuttavia sulla tetra disperazione dell’Allegretto finale, che corteggia la già citata, prediletta tonalità di Sol minore, nella forma d’un tema con variazioni.
Raffaele Mellace