Antonín Dvořák (1841 – 1904)
Concerto per violoncello e orchestra in Si minore op. 104
Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840 – 1893)
Sinfonia n. 4 in Fa minore op. 36
direttore George Pehlivanian
violoncello Ettore Pagano
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Ettore Pagano sostituisce il previsto Mischa Maisky
Biglietteria
Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 20,00 – II settore € 14,50 – Balconata € 11,00 + prevendita
Ridotto (under30, over60, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 16,00 – II settore € 12,50 – Balconata € 9,00 + prevendita
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Giovedì 6 marzo 2025
Note di sala
Il concerto odierno propone due pagine capitali del tardo romanticismo: pagine drammatiche, in modo minore, accomunate dalla provenienza geografica dei rispettivi autori e ancor più dalla lingua musicale adottata. La più recente è il Concerto per violoncello e orchestra scritto da Antonín Dvořák nella piena maturità, nell’inverno 1894/95, nell’ultimo periodo del capitale soggiorno negli Stati Uniti come direttore e professore di composizione del neonato Conservatorio Nazionale di New York. Dvořák vi si applicò con ostentata riluttanza, benché avesse già dedicato allo strumento una Polacca nel 1879 e un giovanile Concerto in La maggiore (b10) esattamente trent’anni prima, nel remoto 1865. Quella che sarebbe diventata, con la sostanzialmente coeva Sinfonia “Dal nuovo mondo”, una delle partiture più frequentate e amate del compositore boemo, presentata a Londra il 19 marzo 1896 da Leo Stern, vede Dvořák stabilire una propria posizione originale accanto a due giganti del sinfonismo e in particolare del concerto solistico della sua epoca: Čajkovskij e Brahms. Se l’ascoltatore italiano potrà cogliere, già dall’attacco del primo movimento, elementi del vocabolario di quei due grandi contemporanei, oggi di ascolto più frequente nel nostro Paese, la strada battuta da Dvořák si dimostra comunque profondamente personale. Basti osservare come alla monumentale introduzione orchestrale all’Allegro d’apertura, il solista risponda volgendo in maggiore il tema principale. Personale è poi la suadente cantilena che caratterizza l’invenzione tematica dell’Adagio ma non troppo. Tutta slava, specificamente čajkovskijana, è la predilezione per i fiati, ad esempio nell’esposizione del secondo tema dell’Allegro al corno, ma già nell’avvio di quel tempo, affidato ai clarinetti all’unisono, scortati dai fagotti, come fa Čajkovskij ad apertura della Quinta Sinfonia. Né manca la parentela d’un passo con un luogo del duetto conclusivo dell’Evgenij Onegin che rimpiange la felicità perduta. Si apprezzi inoltre il respiro autenticamente sinfonico del concerto, che integra solista e orchestra in un dialogo fitto e drammatico, tanto che un commentatore cèco si spinse a definire la composizione una sinfonia con violoncello obbligato: un concerto sofisticato dunque, concepito nella prospettiva del compositore, non in quella del virtuoso che dovrà interpretarlo.
Non minor importanza ha rivestito per Čajkovskij la Sinfonia n. 4, scritta nel 1877, l’anno terribile dell’infelice matrimonio, terminata a Sanremo nel gennaio 1878 e presentata a Mosca il 22 febbraio successivo. Come scrisse all’allievo Taneev, «una sinfonia, la più lirica di tutte le forme musicali […] non dovrebbe esprimere tutto quello che non è esprimibile a parole, ma che l’anima desidera esprimere e che esige che venga espresso? […] la mia sinfonia imita la Quinta di Beethoven». Alla mecenate Nadežda von Meck svelò il programma autobiografico dell’opera, forse memore del Berlioz che Čajkovskij aveva accolto nel suo secondo viaggio in Russia, in particolare rispetto al primo movimento: «L’introduzione è il germe di tutta la sinfonia, certamente l’idea principale. Questo è il Fato, la forza nefasta che impedisce la conquista della felicità, che veglia gelosamente perché il benessere e la pace non siano mai perfetti, mai privi di nubi, che resta sospesa sopra le nostre teste come la spada di Damocle e avvelena senza tregua le nostre anime. […] Non è meglio distogliersi dalla realtà e immergersi nel sogno? O gioia! […] Tutto ciò che è cupo e triste è dimenticato. Eccola, eccola… la felicità! No! Erano sogni e il fato ci risveglia». Proprio il Primo movimento (a Taneev parve un poema sinfonico autonomo, seguito da tre tempi staccati ed eterogenei) rappresenta al meglio l’aspirazione alla grande forma. L’introduzione in Andante sostenuto propone immediatamente il tema del fato, consegnato al fortissimo di ottoni e legni con affermazione perentoria e marziale, il cui aggressivo profilo ritmico pare effettivamente derivare dal celeberrimo tema d’apertura della Quinta beethoveniana. Con sconcertante delicatezza clarinetti e fagotti introducono il Moderato con anima, con il suo tema, nei mesi della composizione dell’opera Evgenij Onegin, in movimento di Valse, simbolo di “tristezza senza uscita”. Il motto fatale dell’introduzione ritorna alle trombe a segnalare l’attacco della Ripresa nella tonalità remota di Re minore, ancora nella Coda e infine nella Stretta concitata. Una tregua è offerta dall’intensa fantasia malinconica dell’Andantino in modo di canzona, in cui un medesimo tema viene ripresentato con grande varietà di armonizzazione e strumentazione. Librandosi nel vuoto, l’oboe solista vi espone una melodia fantastica, errabonda, voce d’uno spirito misantropo e solitario, sopra il pizzicato degli archi, seguito da una diversa versione dei violoncelli e dal secondo tema, a ritmo di marcia, dei violini. Una sezione centrale (Più mosso) richiama il valzer del primo movimento per attingere dimensioni di magniloquenza monumentale, col sostegno di trombe e timpani, prima della ripresa della prima sezione. Lunghi assoli dei violoncelli e del fagotto conducono alle estreme, lapidarie battute, caratterizzate dal timbro del fagotto sul pizzicato degli archi. Ulteriore intermezzo, anch’esso tripartito, è lo Scherzo. Pizzicato ostinato, della cui ricerca timbrica il compositore era particolarmente orgoglioso: «Dapprima gli archi suonano da soli sempre pizzicato; nel Trio entrano i legni, suonando anch’essi da soli; vengono in seguito sostituiti dagli ottoni, ancora una volta soli; al termine dello Scherzo tutte le tre famiglie strumentali si rispondono a vicenda con frasi brevi. Penso che questo effetto sonoro sarà interessante». Il Finale. Allegro con fuoco racchiude un universo di contrasti timbrici, tematici e armonici. L’orchestra piena, rinforzata da un nutrito gruppo di percussioni, enuncia il motto iniziale, subito travolto dal turbinio rapinoso delle scale. Il compositore la definì una descrizione della gioia altrui, estranea alla propria solitudine e subìta passivamente nella sua brutalità chiassosa. L’atmosfera cambia improvvisamente con il lamentoso secondo tema, arrangiamento della melodia popolare Un covone si ergeva nel campo. Quando l’orchestra piena è al culmine dello Sviluppo fa la sua comparsa, terribile, il tema del fato con cui la sinfonia si era aperta, apparizione inquietante e imprevista, esaltata nella sua drammaticità da una serie di pause generali, prima che una Coda concitata non concluda Finale e Sinfonia.
Raffaele Mellace