Direttore: Marco Angius, pianoforte: Alessandro TavernaOrchestra di Padova e del Veneto - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 23 ottobre 2025
Ore: 20:00
sabato 25 ottobre 2025
Ore: 17:00

Sergej Prokof’ev (1891 – 1953)
Concerti per pianoforte e orchestra n. 1 in Re bemolle maggiore op. 10;
n. 5 in Sol maggiore op. 55; n. 3 in Do maggiore op. 26
(giovedì)

n. 1 in Re bemolle maggiore op. 10; n. 4 in Si bemolle maggiore op. 53;
n. 2 in Sol minore op. 16
(sabato)

direttore Marco Angius
pianoforte Alessandro Taverna
Orchestra di Padova e del Veneto

Biglietteria

Rinnovo abbonamenti
dal 10 aprile al 10 maggio 2025

Nuovi abbonamenti
dal 20 maggio 2025

Vendita singoli biglietti
dal 21 giugno 2025

Prezzi dei singoli biglietti
Intero
I settore € 23,50 – II settore € 17,00 – Balconata € 13,00 + prevendita
Ridotto (under30, over60, gruppi, associazioni ed enti convenzionati)
I settore € 19,00 – II settore € 15,00 – Balconata € 11,00 + prevendita

Note di sala

Quale meraviglioso musicista sia stato Sergej Prokof’ev risulterà a tutti evidente dopo queste due serate. L’integrale dei concerti per pianoforte (di rarissimo ascolto, anche per la proibitiva difficoltà esecutiva) ci propone un compositore-interprete, sommo pianista dal virtuosismo spericolato che scrive per il proprio strumento con audacia pari alle proprie doti di esecutore. La serie dei concerti, quanti quelli beethoveniani, abbraccia un ventennio feroce (1911-1932) di cambiamenti radicali (Grande Guerra, Rivoluzione d’ottobre, affermazione delle dittature) per l’Europa e la patria del compositore; ventennio che rappresenta la fase internazionale della carriera di Prokof’ev, tra il completamento degli studi a San Pietroburgo e il definitivo rientro in patria. Stagione tumultuosa, di viaggi, incontri, successi, contestazioni per il giovane virtuoso, il cui catalogo in rapida crescita è caratterizzato da un’invenzione schiettamente d’avanguardia, di cui questi concerti, tra i vertici del concerto pianistico del Novecento, seguono da presso l’evoluzione, tra futurismo e neoclassicismo. Qui di seguito la loro storia.
Prokof’ev ha vent’anni, nel gennaio 1912, ed è ancora studente, quando ultima il Concerto n. 1, di rarissimo ascolto. Lo concepisce in taglia ridotta, intitolandolo sulle prime Concertino. Benché molto breve, non è un lavoro “minore”, quanto piuttosto uno studio di concezione ed energia compressa. C’è tutto un mondo espressivo in 15 minuti scarsi: tre tempi molto densi. Gli estremi sono articolati in una serie notevolissima di episodi contrastanti, proposti in ordine inverso nel primo e nell’ultimo. La malcelata ambizione dell’esordiente di «grande talento» (così la sua pur poco entusiasta insegnante) traspare dal fare grande dell’apertura, mentre nell’Andante assai centrale gli archi con sordina accolgono il solista in un paesaggio sonoro di lirismo incantato. Sul pubblico e sulla critica coevi l’effetto fu di shock. L’energia, la brutalità, la natura primitiva della scrittura suggerirono l’immagine selvaggia d’un giovane artista fauve, un Matisse della musica.
Un anno dopo Prokof’ev realizza il primo concerto di formato grande, in quattro tempi a disegnare un crescendo espressivo. Ispirato al virtuosismo tardoromantico, avviato dal pianista con un Andantino di grande poesia, il Concerto n. 2 pone all’interprete sfide sempre maggiori man mano che procede: la colossale cadenza del primo tempo, il motorismo inesorabile dello Scherzo, l’inquietante Intermezzo a ritmo di marcia, infine la formidabile cadenza d’un Finale di gran peso, articolato e tumultuoso. Una materia magmatica, che non è dato sapere quanto da mettere in relazione con la sorte del dedicatario, l’amico Maximilian Schmidthof, che proprio durante la composizione annunciò a Prokof’ev, con una cartolina, l’intento, portato poi a termine, di suicidarsi. Il debutto, nel 1913, con l’autore al pianoforte, fu un succès de scandale. La natura “futurista” che vi si volle vedere autorizzò Prokof’ev a eseguire il concerto a Roma nel 1915 davanti ai veri futuristi e Djagilev a immaginarne una versione coreografica, mai però realizzata. Perduta durante la Rivoluzione d’ottobre, la partitura fu ricostruita a memoria dall’autore.
Abbozzato con la Sinfonia “Classica” nel 1916, ma compiuto solo nel 1921 quando fu presentato a Chicago con l’autore-virtuoso al pianoforte, il Concerto n. 3 è il più fortunato dei cinque fratelli. Potremmo definirlo il punto d’arrivo d’una ricerca che in un decennio ha perseguito un equilibrio tra percussiva gestualità fauve e accorta costruzione formale, in un geniale, personale ripensamento della tradizione. Equilibrio ben restituito dall’assortimento di maschere espressive del concerto, aperto con un Andante dall’avvio lirico e suggestivo affidato al primo clarinetto, che s’inoltra in liquidità che competono con il Saint-Saëns dell’Aquarium, per subire la secca smentita d’un Allegro nervosissimo, su cui il solista si abbatte con una sferzata di energia. Al cuore sta un Andantino con cinque variazioni il cui poetico tema è esposto da flauto e clarinetto, mentre corona il concerto un Finale di grande energia senza tregua. Il connazionale Konstantin Dmitrievič Bal’mont sintetizzerà in un’immagine potente l’impressione lasciatagli dal concerto: «Lo Scita invincibile percuote il tamburo del sole».
Passa un intero decennio. Nel 1931 Prokof’ev, come Ravel, compone un concerto per la sola mano sinistra, il n. 4, per Paul Wittgenstein, rimasto invalido nella Grande guerra. Lavoro di grande valore, in linea con la poetica del nostro, come dichiara senza esitazioni l’attacco percussivo e brillante, aperto da un’orgogliosa affermazione del solista. Prokof’ev ritorna a una forma insolita e personalissima in quattro tempi, l’ultimo dei quali riprende, a mo’ di postludio, il primo. Immeritatamente agli antipodi della fortuna del Concerto n. 3, allo sfoggio virtuosistico (forse per questo il dedicatario non l’eseguì mai) un nuovo, essenziale orientamento neoclassico. Si consideri il secondo tempo, misterioso Andante che esordisce immerso in una bruma sinfonica per far spazio a una sezione centrale di grande poesia, con afflato lirico, cantando ed espressivo, dell’orchestra, tra eterei arpeggi del solista; o l’avvio del Moderato, cromatico e pseudocontrappuntistico, a imitare un corale severo, tra tono marziale e giocoso (il gioco serissimo del contrappunto, beninteso).
Chiude la serie, ultimo lavoro prima del ritorno di Prokof’ev in patria, il Concerto n. 5 presentato a Berlino nel 1932 in un concerto diretto da Furtwängler cui partecipò Hindemith, nel pubblico Schönberg e Stravinskij. Il cerchio si chiude in particolare su un’indicazione analoga a quella inaugurale del Concerto n. 1, Allegro con brio, cui è intestato un avvio di grande respiro, immancabilmente percussivo. Si respira invece già aria del balletto Romeo e Giulietta nel successivo Moderato ben accentuato, in cui fa capolino un insinuante oboe solo. Ci si riprende dalla tumultuosa Toccata a rotta di collo con l’incanto atemporale del vasto Larghetto, contraddetto dall’energetico Vivo finale. Posti sullo stesso piano, come già nel Concerto n. 4, solista e orchestra, Prokof’ev concepisce una partitura progressiva, per «creare una tecnica che fosse diversa da quella dei miei precedenti concerti». Una partitura di ricerca, che approfondisce la messa a punto d’un suono tipicamente prokofeviano, acuminato, luminoso, brillante che, in questo eccezionale ascolto integrale della serie completa dei concerti, difficilmente sarà potuto sfuggire.

Raffaele Mellace