Wolfgang Amadeus Mozart (1756 – 1791)
Concerto per due pianoforti n. 10 in Mi bemolle maggiore K365
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra in Mi bemolle maggiore op. 73 “Imperatore”
pianoforte e concertatore Louis Lortie
pianoforte Illia Ovcharenko
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
È una sfida a distanza quella che si consuma oggi tra due dei massimi classici viennesi. Se il campo è comune, il concerto per pianoforte e la tonalità di Mi bemolle maggiore, assai diversi sono gli esiti, per due lavori dalla concezione e dallo spirito eterogenei. La pagina mozartiana appartiene all’ultimo raccolto del periodo salisburghese del compositore, la prodigiosa gioventù che rappresenta la premessa dell’estremo decennio viennese. Sulla fine degli anni Settanta, reduce da due fondamentali viaggi a Mannheim e a Parigi, Mozart sviluppò un interesse, si direbbe quasi una passione, per un genere marginale nel repertorio classico, ma allora molto in voga nelle sale da concerto: il concerto per più strumenti o sinfonia concertante. Rappresentato ai vertici di valore estetico dalla Sinfonia concertante per violino e viola K364, anch’essa in Mi bemolle maggiore, ascoltata un mese fa, il genere fruttò abbozzi di un’altra concertante e di un concerto per violino e pianoforte, oltre al Concerto per flauto e arpa K299 e a questo Concerto per due pianoforti, ovvero per un organico senz’altro eccentrico (di fatto solo i Bach, padre e figli, se ne interessarono nel Settecento). Plausibilmente non ancora pronto quando il 3 settembre 1780 Mozart suonò con la sorella Nannerl al castello di Mirabell, a Salisburgo, il Concerto K242 (in una riduzione per due pianoforti), il nuovo lavoro K365, venuto forse alla luce di lì a poco, rappresenta un esempio paradigmatico di conversazione musicale. Nel dialogo tra l’orchestra e i solisti, o tra solo questi ultimi, la musica scivola agile, con suprema naturalezza, da una tastiera all’altra, così che anche l’idea più elementare viene resa interessante dalle differenze cui la sotto pone ciascun interprete, all’insegna d’un duello amichevole, improntato a quella civiltà della conversazione che ha caratterizzato, come ci ha insegnato Benedetta Craveri, il Settecento ancien régime. Il Mi bemolle festivo dell’Allegro d’apertura cede il passo a un delicato Andante in Si bemolle, per ritornare con tutta la verve del Rondò conclusivo, sotto un cielo costantemente sereno, al cui orizzonte non si affaccia mai alcuna nube. Mozart continuò a eseguire il concerto nei primi anni viennesi con l’allieva Josepha Auernhammer, arricchendone la strumentazione, che in origine contemplava solo oboi, fagotti e corni a coadiuvare gli archi. Amò questo concerto anche Mendelssohn, che vi si esibì di volta in volta con Ferdinand Hiller e Ignaz Moscheles.
Su tutt’altro versante, la composizione beethoveniana in programma appartiene al cosiddetto “stile eroico”; si riferisce cioè a quella scrittura musicale elaborata dal compositore maturo, la cui complessità, notevolissima, si presta alla perfezione a comunicare al pubblico un contenuto ideale incandescente che raggiunge l’ascoltatore senza mediazioni e lo coinvolge con un’eloquenza senza parole, ma proprio per questo tanto più efficace. Ascolteremo l’ultimo dei cinque concerti per pianoforte, composto nel 1809. Umiliata dall’occupazione francese seguita alla sconfitta della Quinta Coalizione, e quindi costretta a un oneroso armistizio, la capitale asburgica offriva uno spettacolo che il 26 giugno 1809, dieci giorni prima della vittoria di Napoleone a Wagram, Beethoven commentava con queste parole: «Che devastazione e sconquasso attorno a me, nient’altro che tamburi, cannoni, afflizione umana d’ogni genere». Il furore delle armi e le drammatiche difficoltà dei tempi, lungi dal restare ai margini delle composizioni beethoveniane, vi si riversano imperiosamente, impregnano l’invenzione musicale, influenzando in misura determinante la qualità della scrittura. Sarebbe impossibile concepire una partitura simile prescindendo dal contesto storico-culturale di un’Europa avviata a completare il secondo decennio di guerre, rivoluzionarie prima e napoleoniche poi: andranno ricondotte al rumore della Storia, meno indirettamente di quanto si potrebbe supporre, la spiccata propensione alla gestualità, le sonorità marziali, l’immagine sonora di un sublime che in quella stagione tanto inquieta non poteva se non assumere il tono d’uno stile eroico.
Nacque in quel contesto il Grand Concerto pour le Pianoforte, uscito a stampa con questo titolo, generico ma al contempo significativo (quello d’“Imperatore” è invece spurio), e con una dedica altrettanto significativa al giovane arciduca Rodolfo, ultimogenito dell’imperatore Leopoldo II, talentuoso pianista allievo di Beethoven e suo generoso mecenate (promosse e finanziò in quello stesso 1809 l’istituzione d’una rendita annuale che rendeva il compositore indipendente, onde evitare che lasciasse Vienna, sedotto dal richiamo del fratello di Napoleone, Girolamo Bonaparte, insediato come re di Vestfalia, che voleva il compositore maestro di cappella a Kassel), nonché futuro committente della Missa solemnis. Come avverrà per la Settima sinfonia, nata da una medesima ispirazione, il Concerto coniuga fervore marziale e novità formale, sin dal magniloquente gesto inaugurale: l’accordo e l’arpeggio con cui rispettivamente l’orchestra e il pianoforte stabiliscono la tonalità di Mi bemolle maggiore (quella della Sinfonia “Eroica”). Partitura monumentale e ultimo concerto per qualsiasi strumento cui Beethoven mise mano, ospita in una struttura formale solidissima tanto un lessico tematico di sapore militaresco (ritmi di marcia, terzine che simulano rulli di tamburo) quanto, all’opposto, frequenti indugi pseudoimprovvisatori di toccante poesia, affidando l’uno e gli altri a un virtuosismo pianistico, forse concepito avendo in mente le doti dell’allievo Carl Czerny, che nel 1812 ne interpretò la prima esecuzione pubblica viennese, mentre un’anteprima l’aveva disimpegnata il 13 gennaio 1811 lo stesso dedicatario in un concerto privato a Palais Lobkowitz. Il severo lirismo interiorizzato imposto dall’orchestra all’Adagio un poco mosso e la contrapposta energia che anima il fragoroso Rondò conclusivo, percorso da figurazioni ritmiche inesorabilmente propulsive, completano, dopo le quasi 600 battute del colossale Allegro d’apertura, il compiuto respiro ternario di un organismo profondamente sinfonico in cui il solista, che siede ormai di necessità a un pianoforte moderno, e l’orchestra sperimentano da pari la dialettica di una reciproca esaltazione.
Raffaele Mellace